Altri verranno – tributo ai Sangue Misto

Uno dei più considerevoli prodigi che abbia prodotto l’internet, se lo chiedete a me, oltre a dare l’accesso ad una quantità sconfinata – e pertanto ingestibile – di informazioni, è l’aver potuto avvicinare persone che hanno gusti affini in determinate cose, le più eclatanti che mi vengono in mente sono ovviamente film, libri e musica. Mettendo insieme queste due, sono entrato appunto in contatto con Martino Vesentini, grandissimo esperto di hip hop italiano e in particolar modo di SangueMisto, Neffa, Deda, DJ Gruff e tutto quello che è germogliato attorno prima, durante e dopo quel disco folgorante che fu “SxM”. “Altri verranno” avrebbe dovuto, o se preferite potuto, essere il titolo del secondo disco del terzetto, quello che ad oggi non ha mai visto la luce e a questo punto viene da dire “chissà se mai”. Ma è anche un excursus su quello che è successo dopo, nelle carriere dei tre, con tutti gli alti e bassi che hanno fatto seguito all’avere introdotto in Italia un qualcosa che prima, volenti o nolenti, non c’era.

La copertina del libro di Martino Vesentini, opera di Alessia Santangeletta.

Di SangueMisto, rap italiano e varie altre cosette ho parlato anche in questo post qua, un annetto e rotti or sono. Martino però ha fatto di più: ha scritto un intero libro (che potete trovare ordinandolo in libreria, oppure qui o qui) su questo album, sull’epopea del trio che fu tra i primi a far uscire un genere musicale da una cerchia ristrettissima e farlo diventare cosa condivisa – dobbiamo fare lo sforzo di astrazione necessario di immaginarci, o in certi casi ricordarci, che al tempo esisteva un mondo senza internet inteso come strumento massificato e pressoché gratuito di accesso alla musica, per cui anche dire chi è arrivato primo, chi secondo e così via diventa un esercizio di retorica abbastanza stucchevole: a Bologna c’erano loro e gli Isola Posse, a Varese gli Otierrre, dalle mie parti Frankie Hi-Nrg, a Roma gli Assalti Frontali e i Colle Der Fomento, a Milano gli Articolo 31 e insomma mi fermo qui che sennò facciamo notte. Fatto sta: Martino Vesentini ha scritto un libro che parla di quello che è stato “SxM”, ma non in senso personale: quello che è stato per chi aveva quell’età lì in quegli anni lì, raccontandolo in tanti capitoli quante sono le tracce dell’album, e spostando la voce narrante facendola diventare a turno quella di Neffa, di Deda e di DJ Gruff. Il risultato è un lavoro che è insieme intimo e documentaristico, una fotografia che non diventerà mai sbiadita di quello che ha fatto vibrare i cuori di una generazione, e l’ha fatto forse nell’unico modo possibile di raccontarla alle generazioni successive. Il libro è già stato recensito molte volte e sicuramente molto meglio di come avrei saputo farlo io, così ho pensato che una cosa carina poteva essere fare delle domande all’autore stesso, sulle curiosità che la lettura del libro mi aveva suscitato, e che credo ragionevolmente non siano solo mie curiosità. Questo è il risultato della mini intervista.

  1. La prima domanda è d’obbligo: hai potuto parlare con Neffa, Deda e Gruff durante la stesura, o a libro ultimato? E se sì, cosa ti hanno raccontato?

Ho provato a contattarli a stesura quasi ultimata ma purtroppo non ho avuto modo di parlare di questo mio “progetto”, non avevo ancora un’idea precisa sul pubblicarlo o meno, avrei voluto prima farlo leggere a loro, mi sembrava doveroso, ma non è capitato e a quel punto ho deciso di farlo uscire comunque, autopubblicandolo!

  1. Dal libro si capisce che c’è un gran lavoro di ricerca “archivistica”. Qual è secondo te la più bella “perla” che hai scovato mentre cercavi materiali per il libro?

Gran parte del materiale che ho raccontato nel libro era archiviato nella mia memoria, stipato in un angolo ma ben presente, più scrivevo e più mi tornavano alla mente piccoli aneddoti che credevo dimenticati… alcune cose sono frutto della mia fantasia, per questo il libro è da considerarsi a tutti gli effetti un romanzo. Credo che la perla più bella sia l’inizio del racconto, perché descrive un momento che io stesso non conoscevo (nonostante mi ritenessi fino ad allora il più grande esperto vivente dei Sangue Misto!)… da Rockol.it ho infatti appreso che il giorno della partenza di Neffa e Deda per il Salento (per raggiungere Gruff e provare a scrivere il secondo album) coincise con l’uscita di “Aspettando il Sole” nelle radio… è proprio da questo episodio che decisi di iniziare a scrivere, prima di allora questo libro era solo un’idea parcheggiata nella mia testa!

  1. Il tuo dato anagrafico ha fatto sì che tanti momenti salienti raccontati nel libro li hai potuti vivere in prima persona: raccontare queste storie è stato più un viaggio dentro i SangueMisto o dentro te stesso?

Devo dire che la motivazione principale che mi ha spinto a scrivere è stata quella di mettere in ordine i ricordi di quei tempi, ero un appassionato di Hip Hop e, ascoltando tutto il rap che usciva ai tempi sia negli Stati Uniti che in Italia, avevo sentito nei Sangue Misto qualcosa di diverso, potente, maturo. La passione si è spenta dopo l’addio di Neffa alla scena, ma a distanza di più di 10 anni ho riscoperto la voglia di ascoltare nuovamente gli album con cui ero cresciuto, trovandoli comunque molto attuali e riuscendo a rispecchiarmici anche da persona più adulta e consapevole del mondo. Sicuramente questo viaggio nel tempo è stato molto utile anche a livello personale perché mi ha dato la consapevolezza di poter riuscire a pensare e realizzare qualcosa contando solo sulle mie capacità.

  1. Com’è ovvio che sia, ci sono nel libro molti momenti in cui c’è interazione con molti altri artisti contemporanei dei nostri tre, ma ci sono anche delle assenze illustri, da Joe Cassano (se non erro) a Frankie Hi-NRG (di questo sono sicuro), solo per dirne un paio. Sono assenze dovute a esigenze narrative, o semplicemente non c’era interazione tra i SM e una parte della scena hip hop italiana?

In realtà Joe Cassano è citato in uno degli ultimi capitoli, non ho approfondito la sua figura sia per esigenze narrative ma soprattutto perché conoscevo troppo poco la sua storia e sarebbe stato irrispettoso provare a raccontarla. Per quel che riguarda Frankie non credo abbia avuto un impatto sulla scena bolognese, anche lui comunque è citato in una riflessione in cui Neffa si trova per così dire “in disaccordo” con alcuni giornalisti che lo paragonano a Frankie/Articolo 31, non capendo quanto diversi fossero i loro stili. Ho comunque cercato di inserire nel racconto tutti gli artisti che hanno rappresentato qualcosa per me, oltre ovviamente ad aver inciso in qualche modo sulla vita artistica dei tre protagonisti.

  1. Secondo te quando uscirà il secondo disco dei SangueMisto? Io non ho ancora perso del tutto la speranza…

A malincuore ti rispondo che non credo accadrà mai, probabilmente va bene così, come hanno detto loro più volte “era già perfetto così SxM, non avrebbe avuto senso provare a farne un secondo…”. Ma una cosa che sogno davvero è che un giorno possano riunirsi su un palco, tutti e tre insieme, senza un progetto da promuovere, ne una scaletta di pezzi da fare, solo puro freestyle…

Ritornare sul FQ

Dopo i pezzi già scritti negli anni scorsi, ho cercato di raccontare perché e percome ho il fermo proposito di guardare meno partite possibile del Mondiale di calcio in Qatar (ma sicuramente per la finale farò un’eccezione), e di come, per un viaggio di lavoro, il boicottaggio totale sia stato praticamente impossibile. Grazie a Crampi Sportivi il mio post sui Blog del Fatto.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/03/quanto-e-difficile-trovarsi-a-dubai-ed-evitare-i-mondiali-io-non-ci-sono-riuscito/6890996/

The Sport Light

The Sport Light è un sito web che si propone di fare informazione sportiva seguendo i dettami del cosiddetto Slow Journalism. Per farlo, hanno studiato un piano di abbonamenti decisamente alla portata di tutti (a partire da 2,50 euro al mese). Qualche tempo fa mi hanno invitato a collaborare, e nei giorni scorsi è uscito il mio primo pezzo, di una rubrica che abbiamo deciso di chiamare Screen, per il doppio senso dall’inglese (la parola “screen” identifica sia lo schermo che il blocco nel basket). Lo trovate a questo link, spero che vi convinca ad abbonarvi e a leggermi.

1° Memorial Massimiliano Pancini a Poppi

Avevo avuto occasione di conoscere Massimiliano Pancini in occasione della preparazione di questo pezzo, che celebrava il mezzo secolo di storia di una squadra che a me sarà sempre cara. Purtroppo il destino è stato particolarmente duro con lui: Massimiliano ha lasciato questo mondo molto prima di quanto sarebbe stato giusto. A Poppi hanno scelto di celebrarlo con una giornata di pallacanestro 3 vs 3, nel campetto vicino al palazzetto dello sport recentemente realizzato. Io l’ho raccontato qui.

A Capolona restaurata la torre longobarda di Belfiore

(Articolo pubblicato su Casentino Più, numero di Primavera 2022)

A pochi chilometri dal centro abitato di Capolona, salendo per la strada che porta alle frazioni di Cenina, Ponina e il Santo, a circa 500 metri di altitudine si trova un luogo che ancora oggi offre un panorama mozzafiato ai camminatori che ci si avventurano. Questo posto era noto come il Castello di Belfiore, anche se i capolonesi sono soliti chiamarlo le Torri di Belfiore. Il toponimo con cui è indicato il luogo di Belfiore si ritrova anche in alcuni statuti fiorentini del 1500, e anche nell’atto del 1808, quando venne istituito il “distretto di Capolona, Bibbiano e Belfiore”. Sebbene non ci siano riscontri documentali a sostegno della teoria, si ritiene comunemente che l’insediamento definito come “Castello di Belfiore” fosse di origine longobarda, sia per la vicinanza (circa cinquecento metri) con l’insediamento di Ponina, di cui invece è documentato il suo essere “corte longobarda”, sia per la scelta del punto in cui questa fortificazione era stata eretta, ovvero a cavallo tra due vallate, in modo da poter tenere sotto controllo sia il Casentino sia la piana di Arezzo. I longobardi, infatti, avevano studiato un sistema di torri per meglio controllare porzioni più ampie di territorio, e la possibilità di vedere bene Pontenano, altro insediamento longobardo nel territorio del comune di Talla, da Belfiore, lascerebbe propendere per questa ipotesi. Ci sono tuttavia degli elementi che lasciano pensare ad una riedificazione successiva, presumibilmente in epoca feudataria. Quello che infatti viene definito come “castello” era invece più probabilmente un fortino, un posto di vedetta attrezzato per poter essere difeso in caso di attacco nemico, come testimoniano le feritoie ancora visibili nella parte di cinta muraria che si intravede ancora oggi ai piedi della torre, strette finestrelle da cui era possibile scoccare delle frecce. Questo insediamento venne quasi certamente mantenuto attivo fino ai tempi della battaglia di Campaldino, e anche successivamente, fino cioè alla cessione della città di Arezzo a Firenze, quando venne poi di fatto – e su espresso ordine dei fiorentini – abbandonata e lasciata andare in disuso. Il fatto che gli abitanti del luogo definiscano il posto col nome “le torri di Belfiore” ci fa capire come – nonostante ad oggi di torri ce ne sia solo una – ci sono segni certi e ben visibili di una seconda torre, se non addirittura di una terza. Una sola, comunque, è quella che è riuscita a rimanere in piedi per tutti questi secoli, nonostante l’abbandono, nonostante sia stata sferzata dalle intemperie e la vegetazione circostante l’abbia pian piano sempre più insidiata da vicino, al punto di non renderla ben visibile se non si sa esattamente dove si trova. Il fascino del luogo, con la sua visuale mozzafiato, è però rimasto intatto e ben noto agli abitanti del posto. Così, negli ultimi anni aveva cominciato a prendere piede l’idea di fare qualcosa prima di dover assistere inermi, come è stato da numerose altre parti, al crollo dell’unica torre rimasta dovuto alla normale azione del tempo. Dapprima con un consolidamento della struttura, volto sia ad impedirne il crollo che a limitare la pericolosità per chi si avventurava in mezzo al bosco per vederla, e dopo alcuni anni, grazie all’impegno delle ultime due amministrazioni comunali, a riprova del fatto che quando un’idea è buona non ci si deve rinunciare a causa di un diverso orientamento politico, si è potuto finalmente provvedere a coronare un piccolo sogno che gli abitanti di Capolona covavano, e cioè il restauro dell’antica torre. Il Comune di Capolona, con un post sul profilo Facebook datato 25 maggio 2021, dava infatti l’annuncio tanto a lungo atteso dai cittadini:

Altro bando vinto e nuovo finanziamento arrivato. Iniziati i lavori di ripristino della Torre di Belfiore e creazione area di sosta/picnic. La torre, dovrà essere un punto di riferimento per la nostra comunità, pregio da mostrare e di cui essere orgogliosi, oltre che “attrazione” turistica, raggiungibile tramite auto, trekking o mtb.

Noi di Casentino Più vi avevamo già segnalato questo sito storico, prima ancora dell’inizio delle opere di messa in sicurezza, nella nostra – ahivoi – esauritissima guida “Casentino da scoprire” pubblicata nell’estate del 2016. Stando alle indicazioni che ci fornisce Google Maps, arrivando a Capolona in treno è possibile raggiungere la torre in poco meno di un’ora di cammino a piedi, ma ci metterete probabilmente di più se considerate che, una volta oltrepassato il ponte sulla SR 71, vi immergerete in un nastro di strada asfaltata ma in mezzo alla natura e con scorci notevoli, tra querce e vigneti, e per arrivarci passerete accanto a ben tre luoghi degni di interesse storico oltreché paesaggistico. Il primo è la Pieve di Cenina, intitolata a Santa Lucia. Attualmente parte di una struttura più ampia, di proprietà della Parrocchia di Capolona, la Pieve di Cenina deve il suo aspetto attuale ad una ristrutturazione operata intorno al 1840, anche se il quadro raffigurante Santa Lucia all’interno della chiesa stessa risale a circa 150 anni prima, e notizie di Cenina si trovano fin dal 1109. Il toponimo “Cenina”, addirittura, parrebbe avere origini etrusche, e nell’alto medioevo fu una curtis longobarda. La passeggiata poi prosegue fino al centro abitato successivo, Il Santo, un insediamento di epoca altomedievale con un’altra piccola chiesa, dedicata a Sant’Apollinare, edificata probabilmente durante la reggenza del Vescovo Adalberto, proveniente da Ravenna. Secondo tali ricostruzioni storiche, quindi, questa chiesa dovrebbe avere circa mille anni, poiché il periodo trascorso da Adalberto in terra aretina andava dal 1014 al 1023, anche se tracce di insediamenti ancora precedenti in queste zone risalgono addirittura al 600 d.C. Lasciandosi alle spalle Il Santo, poi, poco dopo sulla destra si trova l’abitato di Ponina. Anche questo toponimo pare di origine etrusca, così come quello di Cenina, ed anche qui ebbe sede una corte longobarda; attorno all’anno Mille Ponina divenne possedimento dei Camaldolesi, che vi edificarono un piccolo monastero, la cui esistenza viene citata in una bolla di Papa Alessandro II datata 29 Ottobre 1072 e in un’altra, successiva, del marzo 1105, di Papa Pasquale. Del monastero camaldolese, tuttavia, ad oggi non resta traccia, anche se le ricostruzioni degli storici tendono a localizzarlo in un’area a valle di Ponina, nota come Campi Chierli. L’occasione di scoprire la Torre di Belfiore, rimessa a nuovo come vi mostriamo in queste pagine, è insomma anche l’opportunità giusta per scoprire un percorso forse poco noto, ma che ne siamo certi, non mancherà di emozionarvi. E poi, la vista dai piedi della torre ripaga di tutto, anche della scarpinata che vi sarete fatti se deciderete di seguire il nostro consiglio. Adesso che il “grosso”, cioè la ristrutturazione della torre, a lungo ritenuta impossibile, è fatto, sta a chi amministrerà Capolona da ora in poi: veicolare e valorizzare al meglio questa piccola gemma nascosta nel territorio – non l’unica, peraltro, come già in passato vi abbiamo raccontato sempre sulle nostre pagine – sarà un dovere. Perché come ci ricordava un noto giornalista del secolo scorso, “un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente.”

Casa Del Vento – Alle Corde (2022)

La copertina della mia copia, come recapitatami brevi manu da Luca Lanzi davanti alla Feltrinelli di Arezzo

Non credo di averglielo mai detto di persona, perché boh, immagino semplicemente non ci sia mai stata l’occasione e il contesto giusto per farlo, quindi approfitto di questo post per rimediare. Ho la fortuna di conoscere di persona due dei membri della band, e di entrambi ho una grande, grandissima stima personale, che deriva da certe situazioni che ho avuto – in momenti diversi – il piacere di condividere con loro. Storie di battaglie per la tutela dei paesaggi dei miei luoghi natii, storie di difesa della Costituzione, oltre ad esser loro eternamente grato per il disco “Sessant’anni di resistenza“, un album che avrò il piacere e l’onore di condividere coi miei figli, raccontando loro che questo è stato, nei nostri territori, in un tempo tutt’altro che remoto. Questa mia predisposizione favorevole nei loro confronti, che poi è anche il motivo per cui sono stato tra i primi (credo) a sostenere la “produzione dal basso” del loro nuovo album, mi rende poco adatto a doverne parlare in termini di recensione, in quanto in tutto questo preambolo ho già fatto capire come e perché l’oggettività del giudizio sia andata a farsi benedire. E però, a salvarmi c’è un però, i miei ascolti musicali non sono solitamente proprio vicinissimi alle sensibilità della Casa, quindi se preso in mezzo tra questi due estremi ho scelto di non scegliere il silenzio e di parlarvi di questo disco è perché secondo me lo merita. E insomma vabbè, i panni del recensore oggettivo li ho già smessi, quindi vi dico solo che questi dieci pezzi – anzi, dieci round, come sottolinea la grafica dell’album – mi hanno emozionato a più riprese. Nelle lettere ai propri genitori (“Il pane e le spine”, “Raccontami ancora”), in quella al figlio (“La tua vita”), nei pezzi che strizzano l’occhio ai Mumford & Sons (“Danza del mare”) , nelle ballad rock (“Mare di mezzo”, Kenmare”), nei pezzi con più verve (“Alle corde”, “Born in the ghetto” e “Sulla tua pelle”) e in quello più nel solco del folk rock che da anni ormai risuona nella Casa del Vento (“Girotondo a Sant’Anna”).

La pagina del booklet in cui mi ha messo la firma – in penna
rossa da me fornita – non è casuale.

La verità è che sono rimasto ammirato, all’ascolto, dalla capacità di songwriting (lo so, sembro uno che ne capisce, ma la realtà è semplicemente che sono uno che ascolta parecchia musica, e ho l’ardire di saper discernere, almeno a sensazione, se una canzone è stata scritta in modo “curato” o “di getto”, se è artefatta o reale, se è scritta col cuore o con gli algoritmi). La Casa del Vento scrive e interpreta sé stessa e le sensibilità che la abitano, in maniera eccelsa. Ed ecco che anche io, figlio del rock psichedelico, risvegliato dal grunge, ipnotizzato dai Radiohead e dai Massive Attack e nuovamente ridestato dal post rock dei Mogwai e dei Giardini di Mirò, ascolto e riascolto questo album, che ho in infinitesimale parte contribuito a far nascere per la stima di cui sopra etc etc, perché le canzoni che lo compongono non sono realmente quelle che immaginavo di trovarci, ma al tempo stesso sono assolutamente pezzi “da Casa del Vento”, un gruppo di musicisti veri e persone sensibili, che ha trasmesso quel che aveva da dire in questi dieci pezzi (dieci round, pardon!) in maniera schietta, semplice, diretta, con un folk rock appena appena contaminato che a me – degli ascolti di cui poco sopra – lo rende decisamente più orecchiabile. E allora viva la Casa del Vento, che a distanza di oltre vent’anni riesce ancora a scrivere canzoni autentiche. Di questi tempi, merce rara.

#OKComputer25

OK Computer, il disco che amo di più della band che amo di più, ha compiuto 25 anni. Ho pensato di celebrarlo dedicando un post su Facebook ad ognuna delle canzoni del disco. Poiché mi sembra che l’idea sia piaciuta, li raccolgo tutti qui, “per chi l’ha visto e per chi non c’era”.

Un particolare della meravigliosa copertine di Stanley Donwood & Tchock (al secolo Thom Yorke)

Airbag
OK Computer me l’ha passato il mio compagno di banco del liceo, che l’aveva comprato perché aveva sentito alla radio Karma Police e gli era piaciuta. Dopo pochi ascolti, ovviamente, avevo deciso che era necessario che anch’io ne avessi una mia copia: avevo quasi diciott’anni e una voglia incredibile di distinguermi, ma al tempo stesso sentivo un indefinito bisogno di elevarmi tramite la bellezza, e quando si ha quasi diciott’anni queste due pulsioni trovano spesso sbocco nella musica. L’attacco di chitarra di Airbag, da sempre e per sempre, è per me memoria proustiana di una porta che si apre, mi dischiude un mondo fin lì sconosciuto e misterioso, ma dal quale non sono mai più uscito.

Paranoid Android
Le feste in casa negli anni 90 erano una cosa un po’ così, molto più alla buona di come immagino siano quelle di oggi. Serviva avere uno spazio abbastanza grande, divani, uno stereo, un tavolo con delle robe da mangiare, genitori consenzienti, un certo numero di persone meglio se assortite, un certo numero di bottiglie meglio se assortite, un certo numero di CD meglio se assortiti. Se anche qualcuno si accollava l’onere di predisporre quella che oggi per comodità chiameremmo playlist, in genere su audiocassetta, non era mai sufficientemente lunga per coprire la durata della festa, e allora a un certo punto potevi impossessarti del controllo dello stereo e mettere un po’ quello che ti pareva, tanto tutti chiacchieravano, mangiavano, bevevano o corteggiavano – spesso anche tutte queste cose contemporaneamente: se andava bene, potevi restare allo stereo e mettere quello che ti pareva. Se andava male, qualcuno ti insultava e si metteva al posto tuo. E insomma, non so com’è stato possibile, ma ho il ricordo distinto che durante una di queste feste, qualcuno (non io, ahimè) ha messo questa, e com’è come non è, dopo poco eravamo tutti lì a cantarla, sostituendo al continuo refrain Rain Down il cognome di uno dei presenti. Una cosa talmente surreale che subito dopo, per stemperare, qualcun altro mise i NoFx.

Ci divertivamo male, negli anni 90, probabilmente, ma questo pezzo sembra scritto ieri, o un secolo fa, o tra cent’anni. E invece era di quel tempo lì, di quando io avevo quasi diciott’anni.

Subterranean homesick alien
Quando hai quasi diciott’anni hai una conoscenza del mondo piuttosto limitata ma in un certo senso pensi di sapere tutto. Io per dire sapevo che esisteva un cantautore di nome Bob Dylan che faceva cose con la chitarra e un’armonica a bocca come quella che sapeva suonare il mio babbo, e questo Subterranean Homesick Qualcosa mi suonava stranamente familiare in un qualche angolo della memoria. Avevo pensato, leggendo la tracklist, che in questo disco avessero voluto infilare una cover, ma già dal primo ascolto mi sono reso conto che mancava l’armonica a bocca, che la mia conoscenza dell’inglese era (è) ancora da affinare, e che nella vita sarei sempre dovuto partire dal presupposto che non ci ho capito niente – nella musica, nell’inglese e in tutto ciò che mi circonda, soprattutto nelle persone. Una lezione che cerco di applicare ancora adesso, anche a costo che qualcuno pensi that I’d finally lost it completely.

Exit music (for a film)
Se c’è una cosa nella quale mi dichiaro cronicamente e irreversibilmente ignorante, questa è il cinema. Guardo pochissimi film, ci ho provato ma davvero per me è un casino: ho bisogno di silenzio, concentrazione assoluta e della giusta predisposizione d’animo. Hai detto niente. Ecco, so benissimo che QUESTO film è un po’ un cult movie per la mia generazione, ma non l’ho mai guardato per intero. Mi sono sempre fatto bastare quel you can laugh, a spineless laugh che mi scende dal collo lungo la schiena, e mi ricorda che il potere di una chitarra acustica e una bella voce trascende tutto il resto, ha una forza che può perfino essere salvifica.

Let down
sono arrivato a quasi 18+25 anni senza un tatuaggio, il che mi porta a pensare che potrei effettivamente chiudere a quota zero, anche se boh, chi lo sa. Ma se non ne ho fatti con l’inchiostro, ci sono alcune frasi, alcuni versi che sono impressi indelebilmente sul cuore e nella memoria. Sarà per questo che quando parte quel One day I am going to grow wings mi capita ogni volta di sentire un brivido che a volte mi fa perfino venire la pelle d’oca. Let Down è una di quelle canzoni che non sono state per me amore a primo ascolto, anche e soprattutto per la posizione nella tracklist, in mezzo tra le due canzoni più “immediate” dell’ intero album. E però, proprio perché è stato amore a secondo o terzo ascolto, è stato amore vero e duraturo.

Transport
Motorways and tramlines
Starting and then stopping
Taking off and landing
The emptiest of feelings
Disappointed people
Clinging onto bottles
And when it comes it’s so, so disappointing
Let down and hanging around.

Karma police
Il 1997 è la preistoria e io conseguentemente sono un dinosauro, me ne rendo conto mentre lo scrivo, eppure che ci crediate o meno è esistito un periodo storico, nemmeno troppo lontano se considerate che io sono qui a raccontarvelo con ancora la quasi totalità dei miei neuroni intatti, in cui le radio erano sostanzialmente esenti dal reggaeton – pensate: se un cantante italiano infilava una parola in spagnolo in una canzone era uno strappo alla regola – e in cui si potevano comporre pezzi con arrangiamenti minuziosi, usando pianoforte, chitarre, strumenti elettronici e infilando nel testo riferimenti a 1984 di George Orwell, e comunque passare nelle radio c.d. generaliste, venire prodotti da una Major, finire in classifica, semplicemente perché la canzone era bella.
Già.
Semplicemente perché la canzone era bella, e lo è ancora, di una bellezza intatta che il tempo non scalfisce.

Fitter happier
Visto che io adoro fare le cose al contrario, fitter happier non l’ho mai skippata e ho anzi sempre voluto capire a fondo cosa dicesse quella voce robotica che parlava con un unico tono su una base elettronica minimal-ma-neanche-troppo. Volevo capirlo perché intuivo che si trattasse di una critica niente affatto velata alla societa di quegli anni, anzi, alla deriva che avremmo preso da lì in avanti, a 25 anni dopo, al nostro futuro che nel frattempo è diventato il nostro presente. No bad dreams, no paranoia. Fitter happier mi ha sempre sconvolto, e per questo le sarò eternamente grato. Per avermi aiutato a realizzare che non voglio essere solo a pig in a cage on antibiotics.

Electioneering
“Genna, famme una cassetta un po’ mista, ma senza robe pallose sennò te cigno”. La richiesta veniva da un compagno di liceo, e io alla fine eseguii. Se non sbaglio, il risultato finale fu anche apprezzato (non ricordo che mi abbia cignato, non in quell’occasione almeno). Il problema è che in quei giorni io ero in fissa totale con OK Computer, e avevo deciso che ci avrei messo qualcosa preso da lì, ad ogni costo. Scelsi questa, la canzone forse più fuori contesto dell’intero album, almeno musicalmente, ma che ci stava, eccome: una scossa elettrica dopo fitter happier per prepararci a quel che sarebbe venuto dopo. Nell’album, certo, ma ancora di più nella vita.

Riot shields
Voodoo economics
It’s life, it’s life
It’s just business
Cattle prods and the I.M.F.

Climbing up the walls
Arriva un momento, nella vita di ognuno di noi, in cui scopriamo il valore dell’ascolto della musica a volume alto, ma alto per davvero. Non è uguale per tutti, e non è uguale per tutte le canzoni. Per me questo momento è arrivato con l’ascolto di questa canzone, una sera, anzi, diciamo pure tarda notte, in macchina, rientrando da una normalissima serata ad Arezzo con amici, ho alzato il volume, così, un po’ per caso, forse per sentire meglio quello che diceva il testo, forse perché semplicemente avevo un po’ di sonno, e alla fine mi si è aperto l’abisso: profondissimo, oscuro, affascinante, e il grido finale di Thom Yorke era anche il mio grido.

Avete mai avuto paura, ascoltando una canzone? Io sì, a tarda notte, tornando a casa da una serata con amici.

No surprises
La melodía di una ninna nanna. Il testo di una band di rivoluzionari. Il videoclip più disturbante di sempre. Almeno due strofe da consegnare alla storia della musica. Se nella loro carriera avessero scritto solo questo pezzo, per un’altra band sarebbe stato più che sufficiente. E invece, non è neanche la canzone più bella dell’album. Solo la più inquietante.

With no alarms and no surprises, please.

Lucky
C’è per tutti, la canzone che potreste ascoltare 780 volte consecutive senza mai stancarvi. Un mio amico del mare, per dire, mi aveva raccontato di aver fatto una cassetta da 46 minuti in cui c’era solo “I want it all” dei Queen. Ecco, per me questo pezzo è Lucky. Credo in effetti di averlo ascoltato per almeno 46 minuti consecutivi (anzi, sicuramente anche di più), cogliendone ogni volta una sfumatura diversa. Mi piace tutto, di questa canzone: l’attacco, il cantato nelle strofe, il ritornello, gli assoli di chitarra, il finale. Tutto. Se dovessi scegliere di poter ascoltare solo una canzone dei Radiohead per il resto dei miei giorni, non potrebbe che essere questa.

We are standing on the edge. 💙

The tourist
Ammetto di essermi chiesto un tot di volte come mai il disco non si fosse chiuso con Exit Music come ultima traccia – in fondo era perfetta già dal titolo. Ma alla fine del salmo, giusto quei 25 anni dopo, mi sono fatto una ragione di questa scelta. E l’ho capita, tutto sommato. Quell’ “Hey uomo, rallenta”, il finale dove gli strumenti tacciono uno alla volta… Il messaggio – potente e chiaro come in tutti gli altri pezzi – è questo: corriamo troppo. Non abbiamo tempo e modo di apprezzare appieno niente di quello che abbiamo intorno. Alla fine, un modo giusto, sincero e schietto di chiudere un disco che dura poco meno di un’ora ma che richiede tutta l’attenzione dell’ascoltatore, dalla prima all’ultima nota. Orecchie spalancate, cervello in funzione, cuore aperto. Chissà se oggi sarebbe possibile, consegnare ad un etichetta discografica un album del genere. Chissà, magari sì, in fondo c’è già un precedente: questo. O magari no, ché non ci sarà mai un altro OK Computer.

Sono passati 25 anni. Questo disco è ancora uno scrigno di tesori. Che bello averlo potuto vivere per così tanto tempo.

5 libri che dovreste leggere

Ok, una cosa del genere l’avevo già fatta qualche anno fa, quindi facciamo conto che sia come le Olimpiadi: ogni tot anni è ora di rifarlo, consigliando volumi diversi, magari anche con criteri diversi. Prendetelo come un post di utilità sociale: per una volta, potreste fare un regalo che non finisce a fare da sottobicchiere o a prendere la polvere in qualche angolo remoto di una casa a voi più o meno nota, cosa quest’ultima che vi rende tristi ogni volta che entrate nella casa di questi vostri amici, parenti, conoscenti e scoprite che il libro non si è mosso di un centimetro ed è più impolverato rispetto alla volta precedente in cui l’avete visto. Inoltre, come già detto la volta scorsa, se questi libri non li conoscete, potete regalarli anche a voi stessi. Stavolta stiamo un po’ più liberi rispetto ai paletti fissati, perché alla fine ho notato che tante cose che io davo per scontate, poi così scontate non erano. Cercherò di svariare un po’ sui generi letterari, insomma, ma includendo anche classici e libri recenti. Per i precisetti: la data indicata tra parentesi è quella della prima edizione italiana). Siete pronti? Partiamo.

1. Cormac McCarthy – La Strada (Einaudi, 2007)

“Ce la caveremo, vero, papà?” Un libro che ha abbattuto ogni mia resistenza, circa il genere cosiddetto post-apocalittico, un romanzo che racconta quanto profondo possa diventare il rapporto tra un padre e un figlio, una gigantesca metafora del circle of life, un libro che fa stare male e che al tempo stesso appassiona come solo le grandi storie sanno fare. Un racconto che è quanto di più vicino all’epica potremo mai trovare, in tempi cupi che sembrano quasi i nostri.

2. Douglas Adams – Guida galattica per gli autostoppisti (Mondadori, 1980)

La fantascienza. La parodia della fantascienza. L’humour britannico. Le mille influenze che questo libro ha avuto nella cultura popolare. A proposito, ve ne dico due delle mie preferite: uno dei primi software di messaggistica istantanea disponibili gratuitamente sul web si chiamava Trillian, come uno dei personaggi della Guida. Il traduttore online sviluppato da AltaVista si chiamava Babelfish, come il pesce che usano i personaggi della Guida per capirsi. Non vi ho detto perché dovreste leggere questo libro (e i successivi)? La risposta è 42.

3. Gaetano Savatteri – La fabbrica delle stelle (Sellerio, 2016)

Il fantastico duo Saverio Lamanna – Peppe Piccionello nasce nelle “antologie in giallo” della Sellerio. Il successo – meritato – è poi andato ben oltre le aspettative della Sellerio stessa, che decide prima di affidare alla penna del giornalista-scrittore Savatteri un romanzo, poi un altro, poi il tutto finisce nelle mani dei produttori di serie TV ed ecco che nasce “Màkari”, serie di successo tratta dalle storie dello scombinato duo. Acume, critica sociale, un mix tra leggerezza e momenti più profondi, con un delitto a fare da sfondo. Il mix funziona, e questo libro è forse uno dei più riusciti (sicuramente uno dei più sottovalutati) libri gialli italiani degli ultimi anni.

4. Georges Simenon – Pietr il lettone (Mondadori, Adelphi, 1933)

Noto anche col titolo di Pietro il lettone o Maigret e il lettone, recentemente ripubblicato nel primo dei “balenotteri” Adelphi che raccolgono tutta la sterminata produzione del giallista belga, intitolato “I Maigret 1”, è il primo capitolo (di 75!) della lunghissima saga del commissario Jules Amédée François Maigret. Una lettura agile, piacevole, che presenta tutte le caratteristiche tipiche della produzione di Simenon – come presentare un’umanità inquieta e sempre protesa alla ricerca di un qualcosa di indefinito – e introduce un personaggio destinato ad entrare nella storia della Letteratura.

5. Jean-Michel Guenassia – Il club degli incorreggibili ottimisti (Salani, 2010)

Lo so, il numero di pagine (circa 700) può spaventare. Ma la storia è coinvolgente, con continui riferimenti alla Storia (si parla di guerra fredda, di conflitto franco-algerino) e la presenza di personaggi storico-letterari realmente esistiti (su tutti Jean-Paul Sartre). Gli incorreggibili ottimisti sono quelli che credono che un altro mondo, nel 1959, sia ancora possibile, anzi, sia l’unica soluzione ai mali della società contemporanea. Avete presente quando si dice “conoscere il passato per capire il presente”? Ecco, è un po’ quello che ci suggerisce Guenassia, con una scrittura gradevole, che strappa al lettore più di un sorriso.

Anche i mostri si innamorano

La copertina del libro in tutto il suo splendore

Lo so, sembra strano anche a me, ma evidentemente io e Michele Borgogni, amico e autore indie (aiuto: non so se gli piace farsi chiamare così… vabbè, ormai è andata!) in coppia in qualche modo funzioniamo, visto che ancora una volta ci siamo trovati a presentare un suo libro, stavolta in un luogo molto caro a entrambi, il Circolo Aurora di Piazza Sant’Agostino ad Arezzo. L’occasione, stavolta, era la sua nuova raccolta di racconti, intitolata “Anche i mostri si innamorano” e pubblicata dalla Dark Abyss Edizioni con una copertina abbastanza inquietante, e quindi in linea coi testi contenuti nel libro stesso. La serata è stata piacevole, come sempre per me quando c’è da chiacchierare di libri in buona compagnia, e mi ha finalmente disvelato uno dei Segreti dell’Esistenza: il Liquore Strega è buono per davvero! Ma torniamo a noi: parlare di libri con un autore è sempre, per mille motivi che sarebbe qui inutile eviscerare od elencare, una cosa difficile, tranne quando l’autore non te la rende facile. Con Michele, fortunatamente, questo è il caso. Le chiacchierate libresche con lui riescono bene e piacevolmente, non vedo l’ora di farne altre!

Qui è dove Michele mi stava spiegando che alle presentazioni sarebbe più professionale bere solo acqua. (Foto di Francesco Alpini)

Come dite? Non ho detto nulla del libro? Ah, è vero. La sinossi, prima di tutto: frugando nella letteratura, nella mitologia, nella cinematografia, Michele Borgogni saccheggia il mondo dei mostri e ce li offre in undici racconti che provengono da ogni parte del mondo e da ogni tempo. Da Godzilla a Bigfoot, passando fra gli zombie e la terribile lamia, dal Giappone all’antica Grecia, l’autore colleziona undici storie, unite dal filo sottile dell’ironia. Divertente, originale, irriverente e, a volte, blasfemo, questa antologia racchiude una carrellata di mostri come non si sono mai visti, né letti.

Diciamocelo: di tanto in tanto, piace a tutti leggersi un po’ di sana narrativa horror. O almeno, a me piace. Ma le letture fatte in questo libro non sono dei “semplici” horror, per quanto gli strizzino l’occhio continuamente. È una letteratura più contaminata, ricca di citazioni, ironica e autoironica. Leggetelo, e che voi siate mostri o meno, vi innamorerete.

Ah, e se dopo averlo letto vi fosse venuta voglia di leggere qualcos’altro di suo, qua c’è una nostra chiacchierata attorno ad un suo libro.