La copertina della mia copia, come recapitatami brevi manu da Luca Lanzi davanti alla Feltrinelli di Arezzo
Non credo di averglielo mai detto di persona, perché boh, immagino semplicemente non ci sia mai stata l’occasione e il contesto giusto per farlo, quindi approfitto di questo post per rimediare. Ho la fortuna di conoscere di persona due dei membri della band, e di entrambi ho una grande, grandissima stima personale, che deriva da certe situazioni che ho avuto – in momenti diversi – il piacere di condividere con loro. Storie di battaglie per la tutela dei paesaggi dei miei luoghi natii, storie di difesa della Costituzione, oltre ad esser loro eternamente grato per il disco “Sessant’anni di resistenza“, un album che avrò il piacere e l’onore di condividere coi miei figli, raccontando loro che questo è stato, nei nostri territori, in un tempo tutt’altro che remoto. Questa mia predisposizione favorevole nei loro confronti, che poi è anche il motivo per cui sono stato tra i primi (credo) a sostenere la “produzione dal basso” del loro nuovo album, mi rende poco adatto a doverne parlare in termini di recensione, in quanto in tutto questo preambolo ho già fatto capire come e perché l’oggettività del giudizio sia andata a farsi benedire. E però, a salvarmi c’è un però, i miei ascolti musicali non sono solitamente proprio vicinissimi alle sensibilità della Casa, quindi se preso in mezzo tra questi due estremi ho scelto di non scegliere il silenzio e di parlarvi di questo disco è perché secondo me lo merita. E insomma vabbè, i panni del recensore oggettivo li ho già smessi, quindi vi dico solo che questi dieci pezzi – anzi, dieci round, come sottolinea la grafica dell’album – mi hanno emozionato a più riprese. Nelle lettere ai propri genitori (“Il pane e le spine”, “Raccontami ancora”), in quella al figlio (“La tua vita”), nei pezzi che strizzano l’occhio ai Mumford & Sons (“Danza del mare”) , nelle ballad rock (“Mare di mezzo”, Kenmare”), nei pezzi con più verve (“Alle corde”, “Born in the ghetto” e “Sulla tua pelle”) e in quello più nel solco del folk rock che da anni ormai risuona nella Casa del Vento (“Girotondo a Sant’Anna”).
La pagina del booklet in cui mi ha messo la firma – in penna rossa da me fornita – non è casuale.
La verità è che sono rimasto ammirato, all’ascolto, dalla capacità di songwriting (lo so, sembro uno che ne capisce, ma la realtà è semplicemente che sono uno che ascolta parecchia musica, e ho l’ardire di saper discernere, almeno a sensazione, se una canzone è stata scritta in modo “curato” o “di getto”, se è artefatta o reale, se è scritta col cuore o con gli algoritmi). La Casa del Vento scrive e interpreta sé stessa e le sensibilità che la abitano, in maniera eccelsa. Ed ecco che anche io, figlio del rock psichedelico, risvegliato dal grunge, ipnotizzato dai Radiohead e dai Massive Attack e nuovamente ridestato dal post rock dei Mogwai e dei Giardini di Mirò, ascolto e riascolto questo album, che ho in infinitesimale parte contribuito a far nascere per la stima di cui sopra etc etc, perché le canzoni che lo compongono non sono realmente quelle che immaginavo di trovarci, ma al tempo stesso sono assolutamente pezzi “da Casa del Vento”, un gruppo di musicisti veri e persone sensibili, che ha trasmesso quel che aveva da dire in questi dieci pezzi (dieci round, pardon!) in maniera schietta, semplice, diretta, con un folk rock appena appena contaminato che a me – degli ascolti di cui poco sopra – lo rende decisamente più orecchiabile. E allora viva la Casa del Vento, che a distanza di oltre vent’anni riesce ancora a scrivere canzoni autentiche. Di questi tempi, merce rara.
OK Computer, il disco che amo di più della band che amo di più, ha compiuto 25 anni. Ho pensato di celebrarlo dedicando un post su Facebook ad ognuna delle canzoni del disco. Poiché mi sembra che l’idea sia piaciuta, li raccolgo tutti qui, “per chi l’ha visto e per chi non c’era”.
Un particolare della meravigliosa copertine di Stanley Donwood & Tchock(al secolo Thom Yorke)
Airbag OK Computer me l’ha passato il mio compagno di banco del liceo, che l’aveva comprato perché aveva sentito alla radio Karma Police e gli era piaciuta. Dopo pochi ascolti, ovviamente, avevo deciso che era necessario che anch’io ne avessi una mia copia: avevo quasi diciott’anni e una voglia incredibile di distinguermi, ma al tempo stesso sentivo un indefinito bisogno di elevarmi tramite la bellezza, e quando si ha quasi diciott’anni queste due pulsioni trovano spesso sbocco nella musica. L’attacco di chitarra di Airbag, da sempre e per sempre, è per me memoria proustiana di una porta che si apre, mi dischiude un mondo fin lì sconosciuto e misterioso, ma dal quale non sono mai più uscito.
Paranoid Android Le feste in casa negli anni 90 erano una cosa un po’ così, molto più alla buona di come immagino siano quelle di oggi. Serviva avere uno spazio abbastanza grande, divani, uno stereo, un tavolo con delle robe da mangiare, genitori consenzienti, un certo numero di persone meglio se assortite, un certo numero di bottiglie meglio se assortite, un certo numero di CD meglio se assortiti. Se anche qualcuno si accollava l’onere di predisporre quella che oggi per comodità chiameremmo playlist, in genere su audiocassetta, non era mai sufficientemente lunga per coprire la durata della festa, e allora a un certo punto potevi impossessarti del controllo dello stereo e mettere un po’ quello che ti pareva, tanto tutti chiacchieravano, mangiavano, bevevano o corteggiavano – spesso anche tutte queste cose contemporaneamente: se andava bene, potevi restare allo stereo e mettere quello che ti pareva. Se andava male, qualcuno ti insultava e si metteva al posto tuo. E insomma, non so com’è stato possibile, ma ho il ricordo distinto che durante una di queste feste, qualcuno (non io, ahimè) ha messo questa, e com’è come non è, dopo poco eravamo tutti lì a cantarla, sostituendo al continuo refrain Rain Down il cognome di uno dei presenti. Una cosa talmente surreale che subito dopo, per stemperare, qualcun altro mise i NoFx.
Ci divertivamo male, negli anni 90, probabilmente, ma questo pezzo sembra scritto ieri, o un secolo fa, o tra cent’anni. E invece era di quel tempo lì, di quando io avevo quasi diciott’anni.
Subterranean homesick alien Quando hai quasi diciott’anni hai una conoscenza del mondo piuttosto limitata ma in un certo senso pensi di sapere tutto. Io per dire sapevo che esisteva un cantautore di nome Bob Dylan che faceva cose con la chitarra e un’armonica a bocca come quella che sapeva suonare il mio babbo, e questo Subterranean Homesick Qualcosa mi suonava stranamente familiare in un qualche angolo della memoria. Avevo pensato, leggendo la tracklist, che in questo disco avessero voluto infilare una cover, ma già dal primo ascolto mi sono reso conto che mancava l’armonica a bocca, che la mia conoscenza dell’inglese era (è) ancora da affinare, e che nella vita sarei sempre dovuto partire dal presupposto che non ci ho capito niente – nella musica, nell’inglese e in tutto ciò che mi circonda, soprattutto nelle persone. Una lezione che cerco di applicare ancora adesso, anche a costo che qualcuno pensi that I’d finally lost it completely.
Exit music (for a film) Se c’è una cosa nella quale mi dichiaro cronicamente e irreversibilmente ignorante, questa è il cinema. Guardo pochissimi film, ci ho provato ma davvero per me è un casino: ho bisogno di silenzio, concentrazione assoluta e della giusta predisposizione d’animo. Hai detto niente. Ecco, so benissimo che QUESTO film è un po’ un cult movie per la mia generazione, ma non l’ho mai guardato per intero. Mi sono sempre fatto bastare quel you can laugh, a spineless laugh che mi scende dal collo lungo la schiena, e mi ricorda che il potere di una chitarra acustica e una bella voce trascende tutto il resto, ha una forza che può perfino essere salvifica.
Let down sono arrivato a quasi 18+25 anni senza un tatuaggio, il che mi porta a pensare che potrei effettivamente chiudere a quota zero, anche se boh, chi lo sa. Ma se non ne ho fatti con l’inchiostro, ci sono alcune frasi, alcuni versi che sono impressi indelebilmente sul cuore e nella memoria. Sarà per questo che quando parte quel One day I am going to grow wings mi capita ogni volta di sentire un brivido che a volte mi fa perfino venire la pelle d’oca. Let Down è una di quelle canzoni che non sono state per me amore a primo ascolto, anche e soprattutto per la posizione nella tracklist, in mezzo tra le due canzoni più “immediate” dell’ intero album. E però, proprio perché è stato amore a secondo o terzo ascolto, è stato amore vero e duraturo.
Transport Motorways and tramlines Starting and then stopping Taking off and landing The emptiest of feelings Disappointed people Clinging onto bottles And when it comes it’s so, so disappointing Let down and hanging around.
Karma police Il 1997 è la preistoria e io conseguentemente sono un dinosauro, me ne rendo conto mentre lo scrivo, eppure che ci crediate o meno è esistito un periodo storico, nemmeno troppo lontano se considerate che io sono qui a raccontarvelo con ancora la quasi totalità dei miei neuroni intatti, in cui le radio erano sostanzialmente esenti dal reggaeton – pensate: se un cantante italiano infilava una parola in spagnolo in una canzone era uno strappo alla regola – e in cui si potevano comporre pezzi con arrangiamenti minuziosi, usando pianoforte, chitarre, strumenti elettronici e infilando nel testo riferimenti a 1984 di George Orwell, e comunque passare nelle radio c.d. generaliste, venire prodotti da una Major, finire in classifica, semplicemente perché la canzone era bella. Già. Semplicemente perché la canzone era bella, e lo è ancora, di una bellezza intatta che il tempo non scalfisce.
Fitter happier Visto che io adoro fare le cose al contrario, fitter happier non l’ho mai skippata e ho anzi sempre voluto capire a fondo cosa dicesse quella voce robotica che parlava con un unico tono su una base elettronica minimal-ma-neanche-troppo. Volevo capirlo perché intuivo che si trattasse di una critica niente affatto velata alla societa di quegli anni, anzi, alla deriva che avremmo preso da lì in avanti, a 25 anni dopo, al nostro futuro che nel frattempo è diventato il nostro presente. No bad dreams, no paranoia. Fitter happier mi ha sempre sconvolto, e per questo le sarò eternamente grato. Per avermi aiutato a realizzare che non voglio essere solo a pig in a cage on antibiotics.
Electioneering “Genna, famme una cassetta un po’ mista, ma senza robe pallose sennò te cigno”. La richiesta veniva da un compagno di liceo, e io alla fine eseguii. Se non sbaglio, il risultato finale fu anche apprezzato (non ricordo che mi abbia cignato, non in quell’occasione almeno). Il problema è che in quei giorni io ero in fissa totale con OK Computer, e avevo deciso che ci avrei messo qualcosa preso da lì, ad ogni costo. Scelsi questa, la canzone forse più fuori contesto dell’intero album, almeno musicalmente, ma che ci stava, eccome: una scossa elettrica dopo fitter happier per prepararci a quel che sarebbe venuto dopo. Nell’album, certo, ma ancora di più nella vita.
Riot shields Voodoo economics It’s life, it’s life It’s just business Cattle prods and the I.M.F.
Climbing up the walls Arriva un momento, nella vita di ognuno di noi, in cui scopriamo il valore dell’ascolto della musica a volume alto, ma alto per davvero. Non è uguale per tutti, e non è uguale per tutte le canzoni. Per me questo momento è arrivato con l’ascolto di questa canzone, una sera, anzi, diciamo pure tarda notte, in macchina, rientrando da una normalissima serata ad Arezzo con amici, ho alzato il volume, così, un po’ per caso, forse per sentire meglio quello che diceva il testo, forse perché semplicemente avevo un po’ di sonno, e alla fine mi si è aperto l’abisso: profondissimo, oscuro, affascinante, e il grido finale di Thom Yorke era anche il mio grido.
Avete mai avuto paura, ascoltando una canzone? Io sì, a tarda notte, tornando a casa da una serata con amici.
No surprises La melodía di una ninna nanna. Il testo di una band di rivoluzionari. Il videoclip più disturbante di sempre. Almeno due strofe da consegnare alla storia della musica. Se nella loro carriera avessero scritto solo questo pezzo, per un’altra band sarebbe stato più che sufficiente. E invece, non è neanche la canzone più bella dell’album. Solo la più inquietante.
With no alarms and no surprises, please.
Lucky C’è per tutti, la canzone che potreste ascoltare 780 volte consecutive senza mai stancarvi. Un mio amico del mare, per dire, mi aveva raccontato di aver fatto una cassetta da 46 minuti in cui c’era solo “I want it all” dei Queen. Ecco, per me questo pezzo è Lucky. Credo in effetti di averlo ascoltato per almeno 46 minuti consecutivi (anzi, sicuramente anche di più), cogliendone ogni volta una sfumatura diversa. Mi piace tutto, di questa canzone: l’attacco, il cantato nelle strofe, il ritornello, gli assoli di chitarra, il finale. Tutto. Se dovessi scegliere di poter ascoltare solo una canzone dei Radiohead per il resto dei miei giorni, non potrebbe che essere questa.
We are standing on the edge.
The tourist Ammetto di essermi chiesto un tot di volte come mai il disco non si fosse chiuso con Exit Music come ultima traccia – in fondo era perfetta già dal titolo. Ma alla fine del salmo, giusto quei 25 anni dopo, mi sono fatto una ragione di questa scelta. E l’ho capita, tutto sommato. Quell’ “Hey uomo, rallenta”, il finale dove gli strumenti tacciono uno alla volta… Il messaggio – potente e chiaro come in tutti gli altri pezzi – è questo: corriamo troppo. Non abbiamo tempo e modo di apprezzare appieno niente di quello che abbiamo intorno. Alla fine, un modo giusto, sincero e schietto di chiudere un disco che dura poco meno di un’ora ma che richiede tutta l’attenzione dell’ascoltatore, dalla prima all’ultima nota. Orecchie spalancate, cervello in funzione, cuore aperto. Chissà se oggi sarebbe possibile, consegnare ad un etichetta discografica un album del genere. Chissà, magari sì, in fondo c’è già un precedente: questo. O magari no, ché non ci sarà mai un altro OK Computer.
Sono passati 25 anni. Questo disco è ancora uno scrigno di tesori. Che bello averlo potuto vivere per così tanto tempo.
“Io sono il numero zero, facce diffidenti quando passa lo straniero”
Sono a Roma con amici, è un tiepido giorno di primavera del 1996. le scuole stanno per finire e io sono appena uscito da Messaggerie Musicali con in mano la cassetta di “Neffa e i Messaggeri della Dopa”. Non ho mai avuto un amore così folgorante come quello che ho avuto per l’hip-hop. Non sono mai stato respinto in modo così brutale come lo sono stato dall’hip-hop. Vedi te com’è strana, a volte, la vita.
Il mio primo contatto con il mondo del rap, e successivamente dell’hip-hop, avviene intorno alla fine del 1993 quando nei palinsesti delle radio c.d. generaliste cominciano ad apparire trasmissioni con nomi altisonanti tipo Venerdì Rappa o Codice Rap. C’era stato Jovanotti qualche anno prima, ma non vale, a meno di non voler considerare “io sono Jovanotti il capo della banda se vuoi essere dei nostri devi fare domanda” una roba talmente trash da diventare valida per il solo fatto che ti entra in testa al primo ascolto, tanto è trash. A dire il vero Jovanotti ci aveva anche riprovato, nel 1992, ed era andata un po’ meglio, quando aveva aperto il quinto disco con un pezzo che si chiamava “il rap”, che pur essendo credibile quanto lo sarei io se mi presentassi a un provino per giocare trequartista per la Juventus, se non altro aveva il merito di incuriosire un giovane tredicenne com’ero io all’epoca verso un genere musicale di cui non esistevano parametri di riferimento, e se abitavi in provincia di Arezzo non c’era praticamente modo di avere un genitore tanto illuminato da fartene venire a conoscenza, magari passandoti i vinili di Grandmaster Flash o di Afrika Bambaataa.
“Rob, te sei stato la prima persona che conosco ad ascoltare i Public Enemy, ti sembra poco?”
(Il mio amico Marco, sulla strada verso un concerto dei Massive Attack non esattamente memorabile)
Non ci sarà mai un genere musicale che mi abbia attirato e poi respinto con la stessa potenza con cui ha saputo farlo il rap, dicevamo. Il rap mi fa incazzare come una bestia, diciamocelo senza tanti giri di parole – anzi, circoscriviamo il campo: il rap italiano mi fa questo effetto. Forse per questo oggi che ho un po’ più di quarant’anni riesco ad ascoltare con testa sgombra e animo sereno i pezzi di quei musicisti che si sono prefissati l’obiettivo di seppellire i loro illustri predecessori aggiungendo una T all’inizio del genere musicale. Vabbè. Storia lunga, ma se siete arrivati a questo punto della lettura significa che ve lo potevate immaginare. Comunque. Le osservazioni sono di due ordini di genere. La prima: il rap italiano mi fa incazzare, come del resto buona parte della “scena” della seconda metà degli anni novanta in provincia, perché è avvitato in una spirale di contraddizioni che mi fa l’effetto di quando un gorgo ti attira, ti attira, ti attira verso il centro e poi ti risputa fuori. La seconda: il rap italiano manca spesso di flow, o nella migliore delle ipotesi ha il flow ma parla del nulla o quasi, con l’effetto forse perfino fastidioso di scimmiottare i padri nobili degli States.
Voglio spiegare meglio questa cosa del rap che ti risputa fuori. Il punto è molto semplice: negli anni novanta, quando il rap e l’hip-hop facevano capolino nei paraggi delle nostre città, ovviamente erano uno dei life model più fighi ma al tempo stesso più impegnativi per un adolescente. Era tutto problematico: vestire oversize, vestire con le canotte delle squadre NBA, stare al passo con le uscite musicali, anche avere un approccio high alla vita. Servivano soldi in tasca, per le canotte, per i jeans oversize, per le scarpe da basket, per i CD originali, per l’approccio high e per tacer del resto. Da street culture, insomma, l’approccio integralista alla faccenda era una roba quasi esclusivamente riservata a figli di papà desiderosi di fare gli alternativi, almeno dalle mie parti. E allora io non ho potuto che tenermene fuori, ecco. Le sneakers della Fila perché effettivamente erano comode per giocare a basket ma si potevano indossare anche coi blue jeans, non oversize. La felpa con la cerniera e il cappuccio, e la voglia di rappresentare sé stessi attraverso il basket, per carenza di conoscenze musicali, capacità di acquistare dischi, inserirsi nei giri giusti. Prendevo tutti questi fighetti fintoalternativi che vestivano oversize, che in un certo senso erano la versione speculare dei fighetti delle polo Ralph Lauren col colletto alzato, e gli facevo il culo nel campo da basket, pur non essendo io Allen Iverson, tutt’altro. Mi ricordo una volta in particolare, c’era questo tizio che aveva la canotta celeste degli Charlotte Hornets di Larry Johnson, che all’epoca in cui si svolgevano i fatti era la cosa più figa del mondo con notevole distacco sulla seconda, e insomma una volta siamo capitati nello stesso campetto di basket, forse era l’ora di educazione fisica al liceo, e abbiamo giocato 3 contro 3. Io in difesa ero abbinato a lui, che più o meno era alto come me. Prima azione sua, lo stoppo mentre cerca di andare in appoggio. Palla mia, cerco di incrociare il palleggio senza neanche forzare troppo, lo lascio sul posto, appoggio due punti al tabellone. Terzo possesso, prova un tiro, vedo che la meccanica è tremenda, una roba tipo Shawn Marion per capirci
che si schianta sulla tabella senza nemmeno sfiorare il canestro.
E allora capisco che sono tutte fesserie, quelle dell’hip-hop in Italia, o meglio, nella provincia italiana, che è un trend di riflesso, che avrebbe potuto benissimo essere tutta un’altra cosa, se negli USA fosse andato di moda qualcos’altro. Pezzi su pezzi su pezzi in cui il rapper di turno elencava una serie di motivi per cui lui poteva e tu no, una roba che avresti voluto ingaggiare una rissa anche solo per principio, che va bene che ci sono stati Jovanotti e DJ Flash, ma insomma, potrei fare i nomi di almeno quattro artisti e/o gruppi che erano partiti per essere i più veri, duri e puri del mondo, ma quando hanno visto il colore dei quattrini – all’epoca ancora si parlava di lire, per contestualizzare un attimo – hanno deciso che loro avevano rappresentato a sufficienza, ecco, insomma, sapete com’è, tengo famiglia, tutti teniamo famiglia.
Certo, c’erano delle eccezioni, in alcuni casi anche delle ragguardevoli eccezioni, e non è un caso se probabilmente il secondo disco italiano più bello tra quelli usciti negli anni 90 è il secondo di Frankie Hi-NRG MC, che peraltro è forse l’unico ad essere arrivato in cima alle hit parade con quella canzone di cui tutti ricordate il testo, col ritornello cantato da Riccardo Sinigallia e il videoclip nel taxi di notte a Roma, ecco, sì, proprio quella lì. Ma a parte queste eccezioni, i cedimenti strutturali erano di gran lunga numericamente superiori agli edifici che restavano in piedi, segno che era proprio sbagliato il progetto, erano sbagliati i materiali, era la costruzione nell’insieme a non funzionare. E allora ho virato altrove, come spesso accade in quella fascia d’età in cui la vita è davvero un insieme di possibilità e non un sentiero stretto, e mi rendo conto che di sicuro mi son perso qualcosa, a volte mi chiedo persino come sarebbe stata la mia vita se non avessi sostanzialmente abbandonato l’ascolto della musica rap e hip-hop se non per sporadiche e abbastanza casuali rentrée, e senza stare a dire “meglio” o “peggio”, sono ragionevolmente certo che sarebbe stata assai “diversa”, perché avrei dovuto trovare una strada mia per gestire la questione dell’approccio integralista alla faccenda, ma magari sarebbe bastato tenere duro qualche altro anno, aspettare quel tanto che bastava per far sì che arrivassero i masterizzatori, i CD-R e i CD-RW, l’ADSL a casa eccetera eccetera, e invece quando quel momento storico è arrivato io ero già da un’altra parte, avevo altri riferimenti musicali, altri giri, giocavo ancora a basket ma per me l’epopea del rap made in Italy inizia con Verba Manent e finisce con 107 Elementi, con tutte le cose ragguardevoli che ci sono state in mezzo, da SxM in poi.
SxM merita un discorso a parte, perché sfugge a tutte le logiche di cui sopra. È un disco che non fa sconti, soprattutto non ne fa a sé stesso e ai suoi autori, come forse solo A volte ritorno di Lou X, disco in cui però mi sono imbattuto quando ero già fuori dalla fase hip hop, quindi che ho ascoltato con testa, cuore e orecchie diverse. Ma l’album dei Sanguemisto, invece, ecco io ero lì mentre succedeva, mentre il nome cominciava a girare e un certo numero di persone conosceva a memoria la rima la mia posizione / è di straniero nella mia nazione. Era un disco che scavava un solco profondo, e comunque più sensato, tra chi non lo conosceva e chi lo conosceva. Nel primo caso eri un ascoltatore superficiale, dilettante o distratto. Nel secondo, davi prova di aver approfondito l’argomento, di volerti davvero interessare a quella faccenda in espansione che era l’hip hop in italiano, e conoscerlo nel suo lato più conscious, e proprio per questo più autentico o quanto meno più prossimo all’originale. Forse per questo non ho mai provato fastidio nell’ascolto, né durante né dopo quella fase.
Certo, c’è stata una coda, perché come tutti i grandi amori non corrisposti lascia una scia che somiglia un po’ a quella di una cometa: splende ben visibile, poi pian piano si affievolisce, e il ricordo della scia porta sempre nostalgia. Ho fatto una rima, per l’appunto – certi amori non finiscono mai del tutto. C’è ancora una cosa che ci tengo a dire: io lo so, davvero, che c’è gente che è riuscita a starci dentro fino in fondo, a questa storia, che l’ha vissuta in modo pieno, vero e con amore profondo. Vi rispetto tanto, tutti – e sono assolutamente privo di ironia quando dico questa cosa. Uno dei miei sogni nel cassetto era quello di registrare un EP di musica hip hop in italiano. Per ora è rimasto lì, ma che ne sai.
Sono passati poco più di 25 anni da quel giorno in cui me ne uscivo da Messaggerie Musicali a Roma con in mano la cassetta ancora incellofanata di “Neffa e i Messaggeri della Dopa”. Qualche mese fa ho visto Neffa di sfuggita a Sanremo duettare con una tizia, lui era stonato e lei no, ma soprattutto erano entrambi fuori tempo in un modo così grave che mi sentivo in imbarazzo per loro, per me, per il flow.
“Io al militare non ci voglio andare, cosa devo dire cosa devo fare?“
Il nome di Fabrizio è noto a molti degli addetti ai lavori di certo rock italiano – vorrei dire tutti, ma la realtà è che non sono abbastanza addentro a tutta questa storia e a questa scena per poter dire se sono pochi o molti. Così come lo studio IRA di Firenze è stato per un certo periodo di tempo un luogo abbastanza mitologico – vorrei dire il centro della musica rock di quel tempo, ma ancora una volta non sono abbastanza addentro etc etc. All’epoca dei fatti, Kurt Cobain era ancora vivo e vegeto, e questo, se volevi fare musica rock in un certo modo, era un fatto con cui dover fare i conti, volente o nolente. Il 1992 era stato un gran casino in generale, tra Mani Pulite/Tangentopoli, le stragi di Capaci e Via D’Amelio, John Frusciante che lascia i Red Hot Chili Peppers durante il tour, l’ascolto reiterato di Innuendo e Nevermind, addirittura qualche radio un filo più coraggiosa passava già Creep, e insomma il messaggio che gli anni ottanta avessero rotto un po’ a tutti fosse giunto il momento di marcare una netta discontinuità con gli anni ottanta passava forte e chiaro fino alle sonnacchiose città di provincia del centro Italia, in quel 1993 che mi vedeva muovere i primi passi al Liceo Scientifico di una città che da molti era vista come uno degli epicentri della musica in Italia, per quel festival musicale gratuito che diventava ogni anno più grande. Fabrizio lo conosco davvero giuro solo di vista e l’ho incontrato solo una volta di persona, credo, e anche se abbiamo qualche amico in comune su Facebook, sono assolutamente certo del fatto che lui non abbia giustamente la minima idea di chi sia io. Eppure, in quella che è una mia ricostruzione assolutamente arbitraria dei fatti, è stato coinvolto a vario titolo nella realizzazione di un disco che ha segnato l’inizio di certo rock in italiano (Terremoto, dei Litfiba, realizzato a fine 1992 e pubblicato all’inizio dell’anno successivo, preceduto dal singolo “Maudit”) e nella realizzazione del pezzo che ne ha decretato definitivamente la morte, nel 1999, nonostante i mai abbastanza lodati intenti umanitari – che poi sono il motivo per cui alla fine il cd singolo me l’ero comprato pure io.
Credo di non aver mai conosciuto nessun gruppo così ossessionato dal voler fare successo come lo erano i Negrita. Anche qui, il campione da me preso in esame sicuramente non è rappresentativo, e alla fine è anche vero che tre ragazzi che si trovano in un garage con una chitarra, un basso, una batteria e un microfono lo fanno con la voglia un giorno di suonare davanti a una folla anche più grande di quella del Modena Park di qualche anno fa, o nella peggiore delle ipotesi di essere i nuovi Verdena, ma quello che voglio dire è che sostanzialmente un’analisi di quelli che sono stati i loro primi lavori è la fotografia di una ricerca continua di suonare le cose che andavano di moda in certi giri negli anni in cui quei dischi uscivano. Il loro primo album esce a marzo del 1994 dopo che i brani erano stati di fatto registrati ad agosto 1993, a Firenze, IRA studios, Fabrizio, eccetera. “Terremoto” ha funzionato alla grande, è stato in testa alle classifiche di vendita in Italia, grazie all’attualità e all’efficacia di certi suoi passaggi testuali (“dentro i colpevoli e fuori i nomi”; “e le stragi senza nome tutte passano da Roma”) e a una forma musicale al passo coi tempi: chitarre suonate un po’ come se fosse il Black Album ma senza esagerare, un accenno di scratch in apertura di un pezzo per strizzare l’occhio alle prime posse italiane, cantato teatrale ma più centrato rispetto alle esagerazioni istrioniche del disco precedente, è un disco che fa tagliare i ponti ai Litfiba con tutto ciò che resta della fanbase del periodo new wave, ma appunto, siamo nel 1993, c’è stato tutto il casino del grunge e di Mani Pulite/Tangentopoli e insomma, non è che potevamo stare lì indifferenti a cantare Love, love will tear us apart again così, come se niente fosse successo, stesse succedendo, stesse per succedere. Insomma, dicevamo i Negrita. Nel 1990 pubblicano un 7”, che all’epoca si chiamavano ancora 45 giri, non si chiamavano ancora Negrita ma Inudibili (giuro che si chiamavano così) e insomma, ecco, non è un debutto che ha fatto le onde. Però amano il rock e il blues in egual misura, e dal vivo funzionano, così ecco che in quell’agosto del 1993, mentre in Italia “Maudit” la si poteva sentire perfino in discoteca, a patto di arrivare a inizio serata, i Negrita e Fabrizio si chiudono in studio per registrare il loro primo, omonimo album. L’idea di massima per come me la immagino io deve essere stata quella di massimizzare l’effetto scia di “Terremoto” ma inserendo qualcos’altro nel frullatore per non farlo sembrare una copia. E allora ecco che al rock in voga in quel fatidico 1993 viene concesso di sconfinare un po’ nel blues e soprattutto di assimilare e reinterpretare la lezione di Blood Sugar Sex Magik, buttando nel calderone un tot di passaggi di funky e un tributo ai RHCP che è piuttosto chiaro fin dal primo logo della band, una donna di colore con acconciatura simil-mohicana che stringe tra i denti un peperoncino rosso al posto di un sigaro.
Il tributo poi si spinge così in là che nel videoclip del primo singolo estratto dal disco, “Cambio”, suonano completamente nudi come era solita fare la band californiana al tempo. Non c’è Flea, non c’è Anthony Kiedis, ci sono tanti, troppi ascolti dei Rolling Stones, e alla fine quello che ne viene fuori è tutto tranne che il Blood Sugar Sex Magik italiano, per fortuna nostra e dei Negrita.
Al lettore di oggi potrà sembrare strano o anacronistico come un telefono a gettoni, eppure vi giuro che in quegli anni ferveva un certo dibattito sull’opportunità o meno di mantenere la leva obbligatoria in Italia, dibattito che ancora oggi, a distanza di un quarto di secolo, potremmo riassumere agilmente nei due poli opposti “ma perché mai dovrei dare un anno della mia vita allo Stato, per prepararmi ad una guerra che spero proprio non ci sarà mai?” versus “glielo darei io un anno di militare, vedi come tornano a casa con la schiena dritta” (questa seconda, con minime varianti, ancora molto in voga). Ovviamente si tratta di due posizioni così lampantemente inconciliabili che, appunto, non si sono mai incontrate, e siccome il ragionamento in prospettiva della classe politica era stato “i vecchi moriranno e i giovani si ricorderanno che ho permesso loro di sfangare questa cosa del militare e mi ameranno per sempre, inconsciamente”, a un certo punto si è deciso che i giovani italiani non dovevano più avere a che fare con questa faccenda della leva obbligatoria, anzi, del militare. Si metta a verbale, per la cronaca, che lo scrivente è stato riformato.
Non so bene quanto peso abbiano avuto nel dibattito i cantanti che in quel momento si schierarono, immagino un po’ per amore e un po’ per calcolo, contro la leva militare obbligatoria, in modo più o meno aperto e più o meno bislacco. Tendenzialmente direi “nessuno”, e tutto sommato è anche giusto così, dai: vi immaginate un governo che si fa influenzare nelle proprie scelte politiche da quello che dice un cantante in una canzone? Certo, da un lato la faccenda avrebbe un suo fascino suggestivo, dall’altro sarebbe una specie di incubo. Non so neanche chi avesse cominciato, ma in quegli anni si passò dal goffo Jovanotti di “Asso”, quando ancora nei testi gli scappava qualche parolaccia, a degli ispirati Litfiba (“trasforma il tuo fucile in un gesto più civile” è un verso che quasi ti permette di scordare tutto quello che è successo da “regina di cuori” in poi, a meno che non ti parta uno qualsiasi di quei pezzi mentre stai scrivendo un post e hai lasciato attiva la riproduzione casuale di YouTube). Insomma, il filone “facciamo una canzone contro la leva obbligatoria” funzionava, e i Negrita ci si buttarono a pesce, ma non con l’insulsa marcetta de “la storia di uno, di uno regolare, che poi l’hanno mandato a fare il militare”, né col rock riflessivo di “un anno è un secolo, 365 croci, e la tua privazione mi taglia la testa”: la loro idea, in questo pezzo più che in altri, è di fornire una sorta di “Give it away” nostrana, con ovviamente la connotazione impegnata che nel periodo 1992-94 era un po’ un obbligo del rock, finché non sono arrivati gli Interno17, i Marlene Kuntz, gli Afterhours, e la musica c.d. impegnata si è spostata sulle vie del folk sulle quali, permettetemi, mi astengo dal formulare qualsiasi giudizio che non sia orale e successivo a due Negroni e/o tre Gin Tonic.
Ho sentito parlare coscientemente per la prima volta dei Negrita in un giornale studentesco che veniva diffuso nelle scuole di tutta la città e che si chiamava “La Testata”, che tutti prendevamo per la parte relativa agli strafalcioni dei professori e in pochi si prendevano la briga di leggere per intero, e insomma io ogni tanto mi leggevo gli articoli che c’erano, e mi ricordo che c’era questa tizia che scrisse che quando sentiva suonare i Negrita gli si accendeva qualcosa dentro, insomma, ci siamo capiti. Cioè, io lo sapevo che c’era questo gruppo di cui il cantante era mio compaesano, e ogni tanto lo vedevo anche al bar della piazza del paesino, ma c’era voluta la recensione su “La Testata” di una tizia di cui non ricordo assolutamente il nome per farmi fare 2+2.
Insomma, la scelta di opporsi alla leva obbligatoria in genere paga, dicevamo, e a quel tempo, come per buona parte della loro carriera finché li ho seguiti, prima sotto il palco ai concerti e poi distrattamente ma con l’affetto che si riserva ad uno dei tuoi concittadini che in un modo o nell’altro ce l’hanno fatta. E allora ecco i Negrita, una band rock con la fedina penale pulita, che confezionano questi tre minuti e trentanove dove tutto sembra essere al posto giusto. Già, sembra. Perché poi quando viene scelto il primo singolo per promuovere il disco, non si sceglie questo pezzo dal ritornello che ti entra nella testa dal primo ascolto, no, si va per la più tradizionale – musicalmente parlando – “Cambio”. Eppure cavolo, davvero funzionava tutto in “Militare”, dalla sezione ritmica, a certi passaggi del testo ben riusciti (“ragazzi che si sparano o che vengono ammazzati, altri escono sfatti o impazziti”), ad un ritornello che era impossibile non imparare, nella sua essenzialità: io al militare non ci voglio andare, cosa devo dire cosa devo fare. Una roba talmente ben studiata che perfino i miei amici del mare, nell’estate dei miei quindici anni, mentre in campeggio aspettavamo di andare in spiaggia, ogni tanto sovrappensiero canticchiavano “io al militare non ci voglio andare…”. Durò poco, i Red Hot Chili Peppers con l’avvento di Dave Navarro erano diventati una cosa completamente diversa, i Radiohead iniziavano un cammino ventennale di catarsi da ”Creep”, Kurt Cobain aveva deciso che per lui poteva bastare così, ai fasti di Tangentopoli/Mani Pulite era seguita la fase del Nuovo Miracolo Italiano, qualcuno già ascoltava dischi hip hop in italiano, e insomma, cambiato lo scenario cambiata la musica. I Negrita fecero uscire dapprima un mini-album di sei tracce in cui cercarono di far evolvere il discorso intrapreso con il primo disco, salvo poi dare un taglio netto con un sound che non interessava più a nessuno per virare verso un rock molto più – boh – radiofonico, abbandonare Firenze, gli IRA Studios, i Red Hot Chili Peppers eccetera eccetera – ricordo distintamente che al primo ascolto di “XXX” la prima domanda che mi feci fu “ma non c’è più Pau a cantare?”, tanto era pulito il timbro di voce, irriconoscibile rispetto a quello così caratteristico e graffiante dei primi due album, ma va bene così, Aldo Giovanni e Giacomo si accorgono di loro, prendono una loro canzone per inserirla nel film che diventò uno dei più grandi successi di botteghino del 1998 e conseguentemente li lanciano nell’Olimpo dove erano sempre voluti arrivare grazie ad uno dei pezzi più convenzionali che abbiano mai scritto. Fa abbastanza scuola il fatto che il loro disco per certi versi musicalmente più significativo e compiuto sia stato composto in un momento storico e artistico in cui non avevano assolutamente nulla da dimostrare a nessuno, “Radio Zombie”, che infatti vende forse la metà delle copie di “XXX” e li porta successivamente a dare alle stampe un loro Greatest Hits I integrato da qualche inedito – memorabile la battuta di un mio amico fraterno e compagno d’università alla scoperta che il singolo nuovo si chiamasse “My Way”: “cioè, hai fatto una canzone tipo sei anni fa che si chiamava A modo mio, ma t’accorgi?” e a tornare rapidamente sui propri passi, ossia la reiterazione di un rock sempre meno hard, o blues, o funky, e sempre più – boh – radiofonico, che va avanti con alterne fortune ancora oggi, che se mi metto a fare i conti scopro che è passato più di un quarto di secolo e ancora sulla scena politica c’è Berlusconi, imperterrito e inamovibile. Ora, mi rendo conto che la mia può sembrare una critica in qualche modo feroce o pungente alla band, ma la verità è che semplicemente le mie orecchie e le loro note hanno preso strade diverse – si cresce, si cambiano gusti, mi è capitato con gli U2 vuoi che non potesse capitarmi coi Negrita? – ma comunque con la coda dell’occhio sto attento a quello che fanno, sperando in cuor mio che un giorno o l’altro Pau torni a guidare la sua Volvo Polar e a cantare con quella voce graffiante che aveva a inizio carriera, li guardo con l’affetto con cui si guarda ad una fidanzata dei tempi del liceo, sperando che tutto gli vada bene anche se consapevoli che quello che gli capita non è più affar nostro. Che poi io, nell’estate del 1995, quella successiva a quando si svolsero i fatti narrati, andavo ancora al mare nello stesso posto e dichiaravo, fieramente e a petto in fuori, di essere concittadino dei Negrita – di chi? – dai, di quelli di “io al militare non ci voglio andare, cosa devo dire cosa devo fare”, la cantavi sempre l’anno scorso. No, boh, non la conosco, magari ti sbagli con qualcun altro. Va beh, per me faranno strada, ne riparleremo tra qualche anno, sai, vengono dalla mia città. Dai, stavolta tocca a te, caccia cinquecento lire per il Juke-Box, cosa mettiamo? No dai, se metti ancora gli 883 non te li do i soldi, li metti coi tuoi, che poi anche loro, da quando se n’è andato Repetto, io boh.
Il giorno che abbiamo saputo che Kurt Cobain si era tolto la vita, il mio mondo era un posto parecchio più semplice di com’è adesso. Non c’erano grandi alternative, il mondo si divideva in chi ascoltava musica pop e chi ascoltava musica rock. Poi le cose hanno cominciato a farsi un po’ più complicate, ma in quel 5 aprile 1994 io avevo 14 anni e mezzo, facevo la prima Liceo Scientifico e ancora non c’erano tanti sottoinsiemi. Io non avevo ancora deciso da che parte stare, facevo un po’ di qua e un po’ di là, e quando si sparse la voce della notizia della morte di Cobain ricordo distintamente le facce di ragazzi e ragazze della mia età, ma soprattutto di quelli più grandi: erano le facce di chi aveva perso un amico, un fratello, un amore sognato. Questa reazione così forte mi incuriosì a tal punto che in un certo senso fu per me necessario capire meglio. All’epoca il mio punto di riferimento musicale erano i Pink Floyd, che avevo scoperto partendo dai Queen grazie a quello che in quel periodo era il fidanzato di una mia cugina. Per me non poteva esserci niente di meglio di loro, e sostanzialmente non avevo neppure troppo interesse a chi usava microfono, chitarra, basso e batteria per cantare rabbie che non capivo, visto che peraltro nel 1994 avevo anche un inglese piuttosto limitato. C’era il rock impegnato, è vero, e c’erano stati “Terremoto” e il primo dei Negrita, che per un quattordicenne di Arezzo era un orizzonte vicinissimo e irraggiungibile. La mia canzone rock preferita di quegli anni era Maudit perché diceva che le stragi senza nome tutte passano da Roma, e il fatto che iniziasse con quello scratch faceva sì che in certe discoteche la passassero dopo le canzoni dance commerciali dell’epoca, senza vergogna, incasinando notevolmente tutti i miei punti di riferimento relativi agli insiemi in cui si divideva il mondo. È bastato il primo ascolto, Smells like teen spirit come tutti, per capire, anzi, per sentire dentro, che la rabbia che gridava Kurt Cobain era la stessa che sentivo io dentro.
Adesso che sono padre, penso a come abbia fatto Kurt a lasciare la piccola Frances Bean, lo penso tanto da quando ho letto la sua ultima lettera, e alla fine capisco: le anime come lui hanno semplicemente un modo diverso di vedere il mondo, hanno occhi diversi. Altrimenti non potrebbero scrivere musica in quel modo. Lo scorso anno ho letto tre libri che a un certo punto parlavano di Kurt Cobain, uno dietro l’altro, senza saperlo, senza pianificarlo, e il lascito che ho dei Nirvana è che quel primo ascolto mi fece capire subito da che parte stare, da lì in poi, e che questa sensazione di mancanza che sentivo dentro da allora e che sento ancora oggi mi avrebbe accompagnato per tutti i miei giorni a venire, e non solo a me, anche adesso che ho qualche capello bianco e di sera, dopo cena, mi infilo gli auricolari e mi riascolto Kurt che grida nel microfono A DENIAL, A DENIAL, A DENIAL, A DENIAL.
Dummy, dei Portishead. Pubblicato il 22 agosto. Grace, di Jeff Buckley. Pubblicato il 23 agosto. Definitely Maybe, degli Oasis. Pubblicato il 29 agosto. My Iron Lung, dei Radiohead. Pubblicato il 26 settembre. Protection, dei Massive Attack. Pubblicato il 26 settembre. Monster, dei R.E.M. Pubblicato il 27 settembre. No need to argue, dei Cranberries. Pubblicato il 3 ottobre. MTV Unplugged in New York, dei Nirvana. Pubblicato il 1 novembre. Vitalogy, dei Pearl Jam. Pubblicato il 22 novembre.
E poi Dookie, Parklife, Superunknown, Weezer, usciti prima del mio compleanno. Non è solo perché ero più giovane, è proprio che il 1994 era davvero un bellissimo anno per avere 15 anni e tanto tempo per ascoltare musica.
Io non lo so se gli ebook collettivi vanno di moda in questo 2018, ma penso di sì. O almeno, vanno di moda nel 2018 che mi riguarda. E fin qui, direte voi. Fatto sta che dopo quello dedicato a Mellon Collie and the Infinite Sadness che è partito da qui, stavolta mi sono ritrovato nell’inedita (per me) veste di semplice partecipante all’antologia ideata da Manq, che anziché spiegarvela io direttamente vi invito ad aprire questo link. 13 raccontini (anzi, 12+1, come dice la copertina della raccolta), che hanno come filo conduttore i momenti epici dei concerti.
La (bellissima) copertina dell’antologia, opera di Gozer Visions
Ora, io credo che quello che ha fatto Giuseppe sia un lavoro che merita tutta la vostra attenzione, e non solo: merita quel tipo di diffusione che è tipo “oh amico, ma lo sai che ho trovato un ebook che parla di episodi epici successi a dei concerti, e vale davvero la pena che tu lo legga, visto che è anche gratis?” (per citare Elio e le Storie Tese, “un applauso per la parola GRATIS”).
Dove lo trovate? Sul blog di Manq al post che vi ho linkato prima, ovviamente. O se siete di fretta, qui.
Oggi è il 17 ottobre e sono quattro anni esatti dal giorno in cui ho imparato delle cose. Quel genere di cose che non ti si staccano più di dosso. Parole, sostanzialmente. Del genere che prima non ne conosci il significato, e tutto a un tratto ti cadono addosso come massi in una frana. Fenomeni necrotico-colliquativi. Parenchima. Lesione eteroplastica. Nodulazione solida. Secondarismi. Linfoadenomegalia. Noduli centrolobulari. Bronchioiectasie. Fenomeni flogistici. E come in una frana, non hai il tempo di renderti conto di quello che sta succedendo. Solo dopo, realizzi che queste parole ti stanno insegnando, nel modo più brutale possibile, che ci sono battaglie che nella vita davvero non si possono vincere. E che non c’è un “modo giusto” di sapere che una persona cara se ne andrà a 65, forse 66 anni, nel dolore e nell’impotenza. Si cerca di tenere insieme i cocci, dopo la frana, e dopo quattro anni si hanno ancora le dita macchiate di colla e il cuore in affanno, come se ne mancasse un pezzo, come se ancora faticasse ad accettare che una persona che ti ha accompagnato per tutto il tuo cammino, fino alla frana, ti dica semplicemente “da ora in poi dovrai cavartela senza di me”. Come nei fumetti e senza un lieto fine.
I massi sono alle spalle, l’aria è piena di polvere che si deposita tutto intorno, togliendo luce e brillantezza dalle cose. Dopo quattro anni, la pioggia ne ha lavata via una parte, ma ancora qualcosa resta sulla pelle, sui pori e nelle vie respiratorie, a far grattare la gola come un pezzo di cibo che va di traverso. E non sono lacrime, quelle che vedete negli occhi, no. È solo un granello di polvere che resta negli occhi, o un po’ di cibo andato di traverso che fa tossire e riempie gli occhi di umori. Strofiniamoci le nocche sulle palpebre, asciughiamoci le gocce che colano sulle guance, infiliamoci gli auricolari nelle orecchie, tiriamo su la zip del giubbotto anche se ancora non fa freddo, anche se questo autunno assomiglia solo alla coda di un’estate come tante altre, mettiamo un piede davanti all’altro, riprendiamo a camminare. Non che ci sia molto altro da fare, a dire il vero.
Quando ti ho sognato eri una goccia in un oceano di gomma credo in te come tu credevi in me? un fiore d’oppio in porcellana e roccia Beh almeno tu sei vero anche se sei solo pensiero
Il 7 giugno 1998, Billy Corgan e soci si esibivano in Piazza Navona e sulla scalinata del Palazzo della Civiltà Italiana. A vent’anni da quel “doppio concerto” (anche se in Piazza Navona fecero solo due pezzi), insieme ad una banda di pazzi che hanno scelto di partecipare a questo progetto, lanciato ormai oltre due anni fa, abbiamo scelto il 7 giugno 2018, una data che simbolicamente suggella il legame degli Smashing Pumpkins con il nostro Paese, per pubblicare l’ebook “UNA PUNTA DI MALINCONIA E TRISTEZZA (MAI) INFINITA – A TRIBUTE TO MELLON COLLIE AND THE INFINITE SADNESS”. Il primo ebook tributo in Italia – per quanto ne so, a dire il vero, in tutto il mondo, ma magari mi sbaglio – ad uno dei dischi che meglio rappresenta la mia generazione. Un album che è un insieme di generi musicali, un ebook che è una raccolta di testi dei generi più disparati. Non vi dico altro, preferisco lasciarvi il piacere di scoprirli via via. Un progetto che a volte ho perfino pensato di mollare (non è facile, credetemi, mettere insieme 28 testi inediti, di autori diversi che spesso neanche si conoscevano tra loro), e che però oggi vede finalmente la luce. Per cui, GRAZIE a tutti quelli che hanno scritto in questo ebook, grazie a chi ha riletto a caccia di refusi, a chi ha tradotto, a chi ha consigliato, a voi che leggerete e farete leggere questo testo ad altri. Noi ce l’abbiamo messa tutta, adesso speriamo davvero che vi piaccia.