LO STRANIERO, ascoltare hip hop in italiano negli anni novanta.

“Io sono il numero zero, facce diffidenti quando passa lo straniero”

Sono a Roma con amici, è un tiepido giorno di primavera del 1996. le scuole stanno per finire e io sono appena uscito da Messaggerie Musicali con in mano la cassetta di “Neffa e i Messaggeri della Dopa”. Non ho mai avuto un amore così folgorante come quello che ho avuto per l’hip-hop. Non sono mai stato respinto in modo così brutale come lo sono stato dall’hip-hop. Vedi te com’è strana, a volte, la vita.

Il mio primo contatto con il mondo del rap, e successivamente dell’hip-hop, avviene intorno alla fine del 1993 quando nei palinsesti delle radio c.d. generaliste cominciano ad apparire trasmissioni con nomi altisonanti tipo Venerdì Rappa o Codice Rap. C’era stato Jovanotti qualche anno prima, ma non vale, a meno di non voler considerare “io sono Jovanotti il capo della banda se vuoi essere dei nostri devi fare domanda” una roba talmente trash da diventare valida per il solo fatto che ti entra in testa al primo ascolto, tanto è trash. A dire il vero Jovanotti ci aveva anche riprovato, nel 1992, ed era andata un po’ meglio, quando aveva aperto il quinto disco con un pezzo che si chiamava “il rap”, che pur essendo credibile quanto lo sarei io se mi presentassi a un provino per giocare trequartista per la Juventus, se non altro aveva il merito di incuriosire un giovane tredicenne com’ero io all’epoca verso un genere musicale di cui non esistevano parametri di riferimento, e se abitavi in provincia di Arezzo non c’era praticamente modo di avere un genitore tanto illuminato da fartene venire a conoscenza, magari passandoti i vinili di Grandmaster Flash o di Afrika Bambaataa.

“Rob, te sei stato la prima persona che conosco ad ascoltare i Public Enemy, ti sembra poco?”

(Il mio amico Marco, sulla strada verso un concerto dei Massive Attack non esattamente memorabile)

Non ci sarà mai un genere musicale che mi abbia attirato e poi respinto con la stessa potenza con cui ha saputo farlo il rap, dicevamo. Il rap mi fa incazzare come una bestia, diciamocelo senza tanti giri di parole – anzi, circoscriviamo il campo: il rap italiano mi fa questo effetto. Forse per questo oggi che ho un po’ più di quarant’anni riesco ad ascoltare con testa sgombra e animo sereno i pezzi di quei musicisti che si sono prefissati l’obiettivo di seppellire i loro illustri predecessori aggiungendo una T all’inizio del genere musicale. Vabbè. Storia lunga, ma se siete arrivati a questo punto della lettura significa che ve lo potevate immaginare. Comunque. Le osservazioni sono di due ordini di genere. La prima: il rap italiano mi fa incazzare, come del resto buona parte della “scena” della seconda metà degli anni novanta in provincia, perché è avvitato in una spirale di contraddizioni che mi fa l’effetto di quando un gorgo ti attira, ti attira, ti attira verso il centro e poi ti risputa fuori. La seconda: il rap italiano manca spesso di flow, o nella migliore delle ipotesi ha il flow ma parla del nulla o quasi, con l’effetto forse perfino fastidioso di scimmiottare i padri nobili degli States.

Voglio spiegare meglio questa cosa del rap che ti risputa fuori. Il punto è molto semplice: negli anni novanta, quando il rap e l’hip-hop facevano capolino nei paraggi delle nostre città, ovviamente erano uno dei life model più fighi ma al tempo stesso più impegnativi per un adolescente. Era tutto problematico: vestire oversize, vestire con le canotte delle squadre NBA, stare al passo con le uscite musicali, anche avere un approccio high alla vita. Servivano soldi in tasca, per le canotte, per i jeans oversize, per le scarpe da basket, per i CD originali, per l’approccio high e per tacer del resto. Da street culture, insomma, l’approccio integralista alla faccenda era una roba quasi esclusivamente riservata a figli di papà desiderosi di fare gli alternativi, almeno dalle mie parti. E allora io non ho potuto che tenermene fuori, ecco. Le sneakers della Fila perché effettivamente erano comode per giocare a basket ma si potevano indossare anche coi blue jeans, non oversize. La felpa con la cerniera e il cappuccio, e la voglia di rappresentare sé stessi attraverso il basket, per carenza di conoscenze musicali, capacità di acquistare dischi, inserirsi nei giri giusti. Prendevo tutti questi fighetti fintoalternativi che vestivano oversize, che in un certo senso erano la versione speculare dei fighetti delle polo Ralph Lauren col colletto alzato, e gli facevo il culo nel campo da basket, pur non essendo io Allen Iverson, tutt’altro. Mi ricordo una volta in particolare, c’era questo tizio che aveva la canotta celeste degli Charlotte Hornets di Larry Johnson, che all’epoca in cui si svolgevano i fatti era la cosa più figa del mondo con notevole distacco sulla seconda, e insomma una volta siamo capitati nello stesso campetto di basket, forse era l’ora di educazione fisica al liceo, e abbiamo giocato 3 contro 3. Io in difesa ero abbinato a lui, che più o meno era alto come me. Prima azione sua, lo stoppo mentre cerca di andare in appoggio. Palla mia, cerco di incrociare il palleggio senza neanche forzare troppo, lo lascio sul posto, appoggio due punti al tabellone. Terzo possesso, prova un tiro, vedo che la meccanica è tremenda, una roba tipo Shawn Marion per capirci

che si schianta sulla tabella senza nemmeno sfiorare il canestro.

E allora capisco che sono tutte fesserie, quelle dell’hip-hop in Italia, o meglio, nella provincia italiana, che è un trend di riflesso, che avrebbe potuto benissimo essere tutta un’altra cosa, se negli USA fosse andato di moda qualcos’altro. Pezzi su pezzi su pezzi in cui il rapper di turno elencava una serie di motivi per cui lui poteva e tu no, una roba che avresti voluto ingaggiare una rissa anche solo per principio, che va bene che ci sono stati Jovanotti e DJ Flash, ma insomma, potrei fare i nomi di almeno quattro artisti e/o gruppi che erano partiti per essere i più veri, duri e puri del mondo, ma quando hanno visto il colore dei quattrini – all’epoca ancora si parlava di lire, per contestualizzare un attimo – hanno deciso che loro avevano rappresentato a sufficienza, ecco, insomma, sapete com’è, tengo famiglia, tutti teniamo famiglia. 

Certo, c’erano delle eccezioni, in alcuni casi anche delle ragguardevoli eccezioni, e non è un caso se probabilmente il secondo disco italiano più bello tra quelli usciti negli anni 90 è il secondo di Frankie Hi-NRG MC, che peraltro è forse l’unico ad essere arrivato in cima alle hit parade con quella canzone di cui tutti ricordate il testo, col ritornello cantato da Riccardo Sinigallia e il videoclip nel taxi di notte a Roma, ecco, sì, proprio quella lì. Ma a parte queste eccezioni, i cedimenti strutturali erano di gran lunga numericamente superiori agli edifici che restavano in piedi, segno che era proprio sbagliato il progetto, erano sbagliati i materiali, era la costruzione nell’insieme a non funzionare. E allora ho virato altrove, come spesso accade in quella fascia d’età in cui la vita è davvero un insieme di possibilità e non un sentiero stretto, e mi rendo conto che di sicuro mi son perso qualcosa, a volte mi chiedo persino come sarebbe stata la mia vita se non avessi sostanzialmente abbandonato l’ascolto della musica rap e hip-hop se non per sporadiche e abbastanza casuali rentrée, e senza stare a dire “meglio” o “peggio”, sono ragionevolmente certo che sarebbe stata assai “diversa”, perché avrei dovuto trovare una strada mia per gestire la questione dell’approccio integralista alla faccenda, ma magari sarebbe bastato tenere duro qualche altro anno, aspettare quel tanto che bastava per far sì che arrivassero i masterizzatori, i CD-R e i CD-RW,  l’ADSL a casa eccetera eccetera, e invece quando quel momento storico è arrivato io ero già da un’altra parte, avevo altri riferimenti musicali, altri giri, giocavo ancora a basket ma per me l’epopea del rap made in Italy inizia con Verba Manent e finisce con 107 Elementi, con tutte le cose ragguardevoli che ci sono state in mezzo, da SxM in poi.

SxM merita un discorso a parte, perché sfugge a tutte le logiche di cui sopra. È un disco che non fa sconti, soprattutto non ne fa a sé stesso e ai suoi autori, come forse solo A volte ritorno di Lou X, disco in cui però mi sono imbattuto quando ero già fuori dalla fase hip hop, quindi che ho ascoltato con testa, cuore e orecchie diverse. Ma l’album dei Sanguemisto, invece, ecco io ero lì mentre succedeva, mentre il nome cominciava a girare e un certo numero di persone conosceva a memoria la rima la mia posizione / è di straniero nella mia nazione. Era un disco che scavava un solco profondo, e comunque più sensato, tra chi non lo conosceva e chi lo conosceva. Nel primo caso eri un ascoltatore superficiale, dilettante o distratto. Nel secondo, davi prova di aver approfondito l’argomento, di volerti davvero interessare a quella faccenda in espansione che era l’hip hop in italiano, e conoscerlo nel suo lato più conscious, e proprio per questo più autentico o quanto meno più prossimo all’originale. Forse per questo non ho mai provato fastidio nell’ascolto, né durante né dopo quella fase. 

Certo, c’è stata una coda, perché come tutti i grandi amori non corrisposti lascia una scia che somiglia un po’ a quella di una cometa: splende ben visibile, poi pian piano si affievolisce, e il ricordo della scia porta sempre nostalgia. Ho fatto una rima, per l’appunto – certi amori non finiscono mai del tutto. C’è ancora una cosa che ci tengo a dire: io lo so, davvero, che c’è gente che è riuscita a starci dentro fino in fondo, a questa storia, che l’ha vissuta in modo pieno, vero e con amore profondo. Vi rispetto tanto, tutti – e sono assolutamente privo di ironia quando dico questa cosa. Uno dei miei sogni nel cassetto era quello di registrare un EP di musica hip hop in italiano. Per ora è rimasto lì, ma che ne sai.

Sono passati poco più di 25 anni da quel giorno in cui me ne uscivo da Messaggerie Musicali a Roma con in mano la cassetta ancora incellofanata di “Neffa e i Messaggeri della Dopa”. Qualche mese fa ho visto Neffa di sfuggita a Sanremo duettare con una tizia, lui era stonato e lei no, ma soprattutto erano entrambi fuori tempo in un modo così grave che mi sentivo in imbarazzo per loro, per me, per il flow.  

Alexy Bosetti, il calciatore ultrà

Alexy Bosetti è con ogni probabilità il personaggio più autenticamente anticonvenzionale del calcio europeo contemporaneo. Vero fino al midollo, in un mondo sempre più spesso plasticoso e artefatto, Bosetti è probabilmente destinato a non diventare mai “qualcuno” più per una questione identitaria che per il mero fatto tecnico.

1. Cose che attengono al rettangolo di gioco.

Il mondo del calcio transalpino comincia a mettere un occhio, anzi tutti e due, su Alexy Bosetti, nel 2012, quando il Nizza si aggiudica la prima Coupe Gambardella della sua storia grazie a 10 reti dell’attaccante nato e cresciuto nella città vecchia, e di origini italiane come una parte consistente degli abitanti del capoluogo della Costa Azzurra. Per lui, in totale, i gol nell’under 19 del Nizza saranno 37. I primi minuti in Ligue 1 a 19 anni in una gara di fine campionato contro l’Olympique Lyonnais, molto più spazio nella stagione successiva, conclusa con i suoi primi gol (2) da professionista con la maglia rossonera in partite di coppa e la convocazione per il Mondiale Under-20 di Turchia. Mondiale che poi i bleuets, che avevano in rosa anche Pogba, Kondogbia e Digne, si aggiudicano battendo in finale l’Uruguay ai rigori. In finale, Bosetti farà il suo ingresso in campo al 65esimo per poi venire a sua volta sostituito nei supplementari. Quanto basta per scriversi nella bio su Twitter “Champion du Monde U20”, e mica male, scusate, cosa avete fatto voi? Poi due stagioni nella prima squadra aiglon, 46 apparizioni in campionato e 10 gol,

(tra cui questo, al Bordeaux)

il debutto nel playoff di Europa League andato male contro l’Apollon Limassol, per le prime gare europee del Nizza dai tempi della Coppa delle Coppe 1997-98 disputata quando i rossoneri militavano in Ligue 2 e Alexy andava all’asilo. In pratica, un giocatore che è tifosissimo della propria squadra, pazzamente innamorato della propria città, che non vorrebbe giocare in nessun altro posto al mondo, ed è anche pagato per fare quello che con ogni probabilità avrebbe fatto anche gratis: a 22 anni, Bosetti ha grosso modo realizzato il suo sogno di sportivo. Ed è a questo punto che vien fuori il lato oscuro della Luna: al Nizza capita l’occasione di prendere uno nel suo ruolo, che senza nulla volergli togliere, è un tantino più forte. L’arrivo di Hatem Ben Arfa – e quello di Valère Germain, oltre alle scelte di Claude Puel, fanno capire ad Alexy che è meglio trovarsi un’altra casacca da indossare, in attesa di tempi migliori per lui. A quell’età, ovviamente, la priorità deve essere quella di giocare, possibilmente segnare, e se a Nizza non c’è spazio è bene farlo altrove. Ma Bosetti, dopo qualche presenza nel Nice II che gioca in terza serie francese, fa una mossa un po’ strana: resta in Francia, ma scende di categoria, nonostante diversi club di Ligue 1 (e anche qualcuno di Serie A, a quanto è dato sapere: in momenti diversi si è parlato di Genoa, Carpi, Sassuolo e in misura minore anche di Inter e Lazio) abbiano mostrato segni di interesse nei suoi confronti. Va al Tours di Marco Simone, un club che avrebbe anche avuto qualche ambizione di promozione ma che poi, alla prova del campo, ha ben presto dovuto abdicare a tal proposito. E si presenta con un gol niente male.


(sveglia, portiere!)

Peccato però che Simone non lo veda granché bene come punta, e che lo veda anche un po’ fuori forma fisica. Il suo periodo in maglia celeste termina con quest’unica rete e un totale di 13 presenze di cui solo 9 in campionato. Ritorno a Nizza e nuovo prestito, questa volta all’estero, ai norvegesi del Sarpsborg FC, che giocheranno pure in serie A, ma tutto sommato non hanno la fama di squadrone, visto che più o meno stabilmente veleggiano a metà classifica. Un campionato che dovrebbe essere ampiamente alla portata del talentino francese. Invece la sua esperienza a Sarpsborg parla di 2 apparizioni da subentrato in campionato per 38 minuti totali, e una presenza con un gol in coppa. Tre mesi da incubo, con un allenatore che parlava ai giocatori solo in norvegese, e ritorno nella Nizza Vecchia a gambe levate. Il Bosetti del 2012 e del 2013 era un giocatore in rampa di lancio, quello del 2016 è un calciatore da ritrovare. E ci riproverà da Nizza, dove per ora però è di nuovo confinato nella squadra B, dove ha giocato (e segnato su rigore) nella seconda di campionato. Il desiderio del giocatore, dopo l’addio di Claude Puel che a quanto pare gli rimproverava il suo scarso impegno in allenamento – non solo quello, ma poi ci arriviamo – è quello di giocarsi una chance a Nizza col nuovo allenatore Lucien Favre. Non c’è più Ben Arfa, non c’è più Germain, e non è che per ora siano stati rimpiazzati da Messi e Cristiano Ronaldo; quindi l’aspirazione di Alexy, oltre che auto-motivazionale, ha anche una sua valenza tecnica che ci può stare. Se non fosse che.

2. Tutto quello che sta fuori dal rettangolo verde, o quasi.

(Alexy Bosetti con la maglia dello sfortunato compagno di squadra Kevin Anin, paralizzato dopo un incidente stradale)

Fino a qui tutto normale, ecco. Abbiamo parlato di un calciatore che da giovane era una promessa. Dotato di buona tecnica, sufficientemente rapido, magari non proprio un Marcantonio (1,70 per 65 kg circa) ma che compensa le carenze alla voce “doti fisiche” con un buon opportunismo. Una promessa che potrebbe rivelarsi un’eterna promessa. E capirai, ce ne saranno un milione. Eppure, lo abbiamo detto in apertura del pezzo e lo ribadiamo, Bosetti è un calciatore unico o quasi nel panorama europeo. Perché Bosetti non è Ibrahimovic, che si è dichiarato “tifoso sin da bambino” di un numero incalcolabile di squadre per mera convenienza mediatica. Bosetti non è neanche semplicemente “tifoso” del Nizza, no. Alexy Bosetti è un ultrà del Nizza, ed è dannatamente fiero di esserlo. Non è il classico ragazzo “cresciuto nel vivaio della squadra della sua città”, ma è piuttosto uno che è “cresciuto in curva sud” dello Stade du Ray. I suoi numerosi tatuaggi (che gli valsero il soprannome di Tattoo man tra i compagni di nazionale under 20) raffigurano gente come Albert Spaggiari, quello della “rapina del secolo a Nizza”, Jacques Medecin, per 24 anni sindaco di Nizza, e soprattutto il teschio trafitto dal coltello simbolo della disciolta (dal Ministero degli Interni francese, per atti di violenza) Brigade Sud Nice 1985, o più semplicemente BSN. Ha un account twitter gestito in totale autonomia, senza filtri o social media manager, dove si riesce a capire qualcosa in più del personaggio: foto di partite viste dalle curve (a Milano i tifosi dell’Inter lo considerano uno di casa),

retweet di supporto ad alcuni gruppi del tifo organizzato di varie città europee, tweet in italiano (come questo, subito dopo l’attentato alla Promenade des Anglais),

passione per gli sport americani (tifa gli Charlotte Hornets e in generale segue molto la NBA). Bosetti è un appassionato di sport in generale, con una simpatia mai nascosta anche per la nazionale italiana di calcio.

Ed è proprio per questo suo essere “vero fino in fondo” che gli ultras del Nizza lo amano incondizionatamente – ricambiati – e il resto delle curve di Francia, tranne qualche eccezione, lo odia. Ed il fatto di essere un antieroe, un po’ come certi personaggi dei fumetti Bonelli, fa sì che con lui non ci possano essere mezze misure. I tifosi del Bordeaux lo chiamano “la pute de la BSN”, quelli dell’Olympique Marseilles gli cantano “J’ai niqué ta mère”, entrambe espressioni francesi che non ci dovrebbe essere troppo bisogno di tradurre, diciamo non del genere che potreste trovare nel Galateo di Monsignor Giovanni Della Casa. E se è vero, come è solito dire LeBron James, che haters gonna hate, e che i cori contro fatti dalle tifoserie avversarie hanno spesso l’effetto contrario di esaltare il calciatore che ne viene fatto oggetto, soprattutto se si tratta di un ultrà, il punto vero è che questo suo modo di essere, a Bosetti, alla fine del salmo sta portando forse più rogne che benefici. Perché Bosetti, dovunque vada e qualunque cosa faccia, è ormai, in primo luogo, il “calciatore ultrà” ancor prima che l’attaccante campione del mondo under 20. Ovvio che lui se la sia cercata e voluta fino in fondo, ma l’esistenza stessa di un calciatore come Alexy ci obbliga tutti ad interrogarci su quanto sia profonda la nostra conoscenza del mondo del tifo organizzato. Perché di lui, il suo ex allenatore, in una conferenza stampa, ha sentito in un certo senso il bisogno di dire che ecco, tutto sommato, anche un po’ meno di identità andava bene uguale. Perché si è beccato una squalifica di una giornata per aver esultato sollevando la manica per mostrare un tatuaggio ai tifosi dell’OM dopo un gol in Coppa nella pazza partita OM-Nizza 4-5. Perché gli sono state attribuite simpatie di destra, per via di un’esultanza che ricordava la quenelle, il saluto nazista al contrario, e che però non lo era – ma in realtà, almeno stando al suo account Twitter, non viene palesata alcuna opinione politica, anzi, rispetto ad alcuni giocatori noti per le loro simpatie politiche e per questo idoli delle loro curve (tipo Di Canio o Lucarelli, per capirsi), siamo davvero su un altro pianeta. Perché quando Puel gli ha fatto capire che per lui a Nizza ci sarebbe stata tanta panchina e tanta tribuna, lui, pur di non dover affrontare Le Gym da avversario, ha pensato che fosse meglio scendere di categoria. Perché quando parla di “mentalità ultrà”, Bosetti fa una considerazione giustissima, e che trascende l’opinione che ognuno può avere in merito: molta della gente che parla di ultras, di mondo delle curve, di mali e di soluzioni, spesso, non ha una vera conoscenza della questione, e quindi parla di cose che non sa, o comunque che conosce solo in parte. Non dovrebbe esserci vergogna ad ammetterlo, questo ci dice Bosetti, non è che ci si può intendere di ogni cosa. Eppure, nella zona grigia in cui il calcio si incontra con la politica, questo calciatorino del ’93 pieno di tatuaggi, di cui almeno un paio riconducibili a criminali veri o presunti, che tutto sommato non è Messi e non è Griezmann, alla fine è un personaggio un po’ scomodo. Per cui ok, vuoi fare il calciatore ultrà? Liberissimo di farlo, ma non aspettarti una mano da nessuno, o quasi.

3. Torniamo in campo, va’.

(ecco come te la vinco al 94esimo. Rientrare dal fuorigioco chi?)

Eppure la sensazione che Bosetti sia un giocatore vero c’è. Perché alcuni dei suoi gol sono stati davvero di pregevole fattura. Perché a dispetto del fisico, non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Perché quando gioca non lesina mai impegno e abnegazione. Perché fa spogliatoio. Perché di calciatori banali ne abbiamo fin troppi. Perché non vinci così tanto nelle giovanili, da protagonista, per caso. Perché è uno che ha lottato per realizzare un sogno, giocare e segnare con la maglia della squadra del cuore, e ci è riuscito. Perché alla fine saper giocare a calcio non è una cosa che si disimpara a 23 anni. Intanto, Alexy ha dimostrato grande umiltà nel chiedere di potersi giocare le sue chances a Nizza, come faceva quando sia lui che l’altro golden baby rossonero Neal Maupay, anche lui costretto a scendere di categoria per trovare spazio dopo una stagione a St. Etienne, sembravano destinati ad un radioso avvenire. Favre lo ha schierato in qualche amichevole, poi lo ha girato alla squadra B. Bosetti si è adattato, ha fatto quello che gli è stato chiesto, è tornato in campo con quella maglia che per lui, fuor di retorica, è una seconda pelle. Consapevole che il calcio professionistico è uno sport che non conosce pietà o riconoscenza, Bosetti continuerà a provarci. E se un giorno decidesse di tentare la sorte al di qua di Mentone, sicuramente varrebbe la pena di andarlo a vedere.

(Articolo pubblicato originariamente su Crampi Sportivi il 31 agosto 2016)

We don’t have any real friends

Avevo detto che non l’avrei più fatto. E invece l’ho fatto di nuovo. Con la bellissima copertina di Fabrizio Napolitano, la intro di Max Donghi e la prefazione di Francesco Farabegoli è uscito oggi We don’t have any real friends – a tribute to The Bends. un ebook collettivo che celebra i 25 anni dall’uscita di The Bends. Lo trovate nella sezione che Idioteque.it, il più grande sito italiano dedicato ai Radiohead, gli ha riservato, cliccando qui. Parola magica: è GRATIS.

Come sempre, pareri, opinioni, osservazioni etc etc sono graditi e ben accetti. Buone letture, e approfittatene per ascoltare o riascoltare il disco.

Mamba Forever.

Kobe Bryant è uno dei miei miti adolescenziali. Un giocatore pressoché mio coetaneo, che ho ammirato tanto per i risultati ottenuti sul campo che per la sua attitudine.

Kobe Bryant se n’è andato in un elicottero precipitato insieme alla figlia Gianna e ad altre  sette persone. L’assurdità della sua morte mi ha ricordato ancora una volta quanto le nostre vite, davvero e fuor di retorica, siano appese a un filo.

Quello che è stato per me Kobe Bryant, ho provato a raccontarlo qui.

 

Ricapitoliamo novembre.

Come sempre, questo blog sembra “dormiente” mentre invece le mie energie e le mie velleità di scrittura se ne vanno in mille direzioni. Tipo che ho recensito due libri, qui e qui. O che è uscito un mio profilo su Gianmarco Pozzecco, uno dei miei idoli sportivi di gioventù, realizzato per Overtime – Storie a Spicchi in collaborazione con Legabasket. Pozzecco che poi ha commentato il mio articolo (questa parte della storia ve la racconto qui). Inoltre ho partecipato ad un concorso letterario di cui sapremo l’esito tra una ventina di giorni,  ho coordinato assieme ad Andrea Cassini un progetto letterario a scopo benefico che vedrà la luce a metà dicembre e di cui vi parlerò più diffusamente in seguito, ci sono in preparazione due pezzi su due altri grossi personaggi cestistici, uno del presente e uno del passato (uscita prevista per entrambi: inizio dicembre), un ebook tributo su The Bends che forse uscirà – se mai uscirà, dipende da tutte le parti coinvolte – il 13 marzo 2020, e infine un mio quarto libro, che stavolta nelle intenzioni sarebbe un romanzo, anche questo previsto per fine 2020.

Ah, ora che ci penso: quasi quasi faccio un post su altri 10 libri che dovreste regalare per Natale, in pratica un sequel di questo, che ne dite?

Insomma, come sempre tanta carne al fuoco, restate con le antenne dritte.

TYPEW

I ragazzi della Terza C


…e domattina si ricomincia, un nuovo anno scolastico prende il via. Tu inizierai la terza elementare, stasera ti sei voluto addormentare abbracciato al mio braccio sinistro, e io sono qui, con questo piede “zoppo e malato”, come lo chiami tu, che cerco di non farmi venire una botta di nostalgia per la bellissima estate che abbiamo trascorso, l’estate de “L’isola dei tesoro” e di “Robin Hood”, della nuotata allo scoglio dello stellino e al vecchio relitto, della bicicletta e dei canestri di sinistro, dei pesci spada alla griglia e dei cornetti vuoti. E allora ho apparecchiato per la colazione di domattina, ti ho messo la tazza di Snoopy e il muffin al cioccolato, ché tu diventi grande così in fretta che è bellissimo e spaventoso al tempo stesso, guardarti così piccolo eppure così forte, e io sono sicuro che non amerò mai nessuno come sto amando te, adesso, mentre metto sulla tavola il barattolo dello zucchero che tu non vorrai, prima di venire a controllare se è tutto ok con le coperte, se non hai troppo caldo, se non hai troppo freddo, se fai buoni sogni, la notte prima del primo giorno di scuola.

40. 40?

Qualcuno ha detto 40? Quaranta?

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Quando non ne avevo neanche 20, 40 era il numero di una delle maglie più ambite tra i fan della NBA. E della musica grunge.

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Adesso che sono due volte ventenne, mi concedo una fetta di cheesecake al limone alla fine di un pranzo di pesce, in un ristorante  praticamente sulla spiaggia. La musica grunge non esiste più, i Seattle Supersonics neanche, ogni tanto mi diverto ancora a fare qualche canestro, ma secondo me ero più forte nel 1999. Anche la nazionale italiana di basket lo era, ma questa è un’altra storia. Il punto è che ora come allora sono con persone che mi vogliono bene, e allora non è stato tutto vano. Anzi.

Due parole su Amaranto Magazine

Che ci fosse qualcosa che non andava, oggi, l’avevo intuito dal messaggio di Andrea Avato nella chat WhatsApp di Amaranto Magazine, “Perla Amaranto”. Alle 15:34 Andrea ci scrive

Così io penso che Andrea deve dirci qualcosa. E infatti, una mezz’ora prima che la notizia diventi di pubblico dominio, ci arriva questa mail, che comincia così:

Buonasera a tutti ragazzi.
Tra poco pubblicherò l’articolo al riguardo, ma volevo avvertirvi in anticipo per correttezza. Non troppo in anticipo, è vero, però ho pensato che sarebbe stato meglio così per mille motivi.
Oggi è l’ultimo giorno di Amaranto Magazine. Ho preso questa decisione un po’ di tempo fa e, lo dico per evitare equivoci, non è legata alle contingenze calcistiche.

Ho dovuto leggere e rileggere più volte la frase che ho evidenziato in grassetto, in un certo senso il cervello rifiutava di interpretare le informazioni.  E allora mi sono semplicemente lasciato travolgere dai ricordi.

Un logo che ormai è diventato familiare per tutti i tifosi dell’Arezzo Calcio…

Il mio primo pezzo su Amaranto Magazine era su questioni extra-calcistiche, al tempo il sito/blog stava pensando di allargarsi anche ad altri campi e così decisi di provare a farmi avanti. Avevo da poco compiuto ventotto anni e mi presentai da aspirante giornalista pressoché sconosciuto, a parte qualcosa che avevo fatto con la Free Basket Arezzo, e Andrea Avato, che mi era stato presentato poco prima da Maurizio Gambini di Atlantide Audiovisivi, mi disse che il pezzo poteva andare. Andò online ed era il 6 dicembre 2007, per me era un grande traguardo, tanto che di questo articolo ne ho ancora una copia stampata. Meno male, visto che con il cambio del server una marea di articoli sono andati persi, temo per sempre.  Come quello in cui vennero fatti cambiare i contenuti del sito di Floro Flores, che ci mandò addirittura una mail di scuse.  Come quello sulla nascita di mio figlio, anche quello stampato, fortunatamente. Come quello sulla schedatura collettiva al termine di Pontevecchio-Arezzo, che mi vide andare anche a Teletruria a raccontare a Block Notes quello che era successo.  Come la rubrica sulle “vecchie facce”, dove ho raccontato un tot di giocatori che hanno vestito la maglia amaranto negli anni dell’A.C. Arezzo e che è stata lì lì per essere raccolta in un libro.  Ho scritto tanti, tantissimi articoli per Amaranto Magazine, cercando sempre di mettere la passione davanti all’analisi tecnica, perché lì ci sono altri più ferrati di me che la partita l’ho sempre vista dalla curva Sud, tranne che nei due periodi di chiusura della medesima.  Ho anche giocato a calcio nella squadra dei giornalisti aretini contro gli amaranto del 1982,

   Sì, LO SO che non sembro un calciatore. Mai detto il contrario, però.

ribadendo con la mia stessa performance che una cosa è scrivere di calcio e un’altra giocarlo davvero. Ho scritto di Arezzo calcio e di cifre di Giostra del Saracino – A proposito, una curiosa coincidenza: il mio primo pezzo per AM e l’ultimo sono compresi tra la vittoria numero 26 e la numero 27 di Porta del Foro…

A volte i miei pezzi per AM sono riusciti meglio e a volte peggio, a volte ho fatto arrabbiare qualcuno, ma come giustamente ha sottolineato Andrea, si scrive di Arezzo Calcio per via di quella passionaccia che non ci si scolla di dosso, e neanche vorremmo che lo facesse.  È passata una vita intera, in questi 13 anni di Amaranto Magazine, di cui quasi 12 trascorsi “a bordo”.  Ogni tanto qualcuno, al telefono, sui social o incontrandomi di persona mi ha fatto i complimenti per alcune cose scritte (tipo per questo post qua), e questo, avendo scritto con e per passione, è il più bello dei riconoscimenti. Ho parlato di Lauro Minghelli, 15 anni dopo la sua scomparsa per parlare del tempo che passa ma non porta via i ricordi. Ho scritto il pezzo per raccontare il 17 aprile del 1993 vent’anni dopo. Ho raccontato, ospite di Amaranto Magazine, vittorie e sconfitte, gioie e dolori, cercando di poter dare il mio punto di vista di innamorato dei colori amaranto. Mi piace sempre ricordare che una volta, ad un corso di formazione sul giornalismo sportivo, uno dei docenti ci disse che non bisognerebbe mai essere tifosi della squadra di cui si scrive, se non si vuol perdere l’oggettività del giudizio, e in un certo senso è vero, lo capisco, solo che mentre ce lo diceva io pensavo ad Amaranto Magazine, dove tutti noi che scrivevamo i pezzi eravamo, siamo, saremo tifosi amaranto, e per questo non posso che ringraziare Andrea Avato per avermi permesso di non snaturarmi mai, per avermi fatto portare la mia voce – spero gradita, sicuramente sincera – a bordo di questa Hispaniola amaranto, che adesso torna in porto e si ferma. Come recita un famoso striscione, “con l’orgoglio e la fierezza di chi l’Arezzo l’ha nel cuore”. Ciao Amaranto Magazine, è stato bello aver scritto un piccolo pezzo della tua grande storia.

Come una mano che saluta da altrove

Domani sera, al circolo ARCI “Rinascita” di Figline Valdarno in Via Roma, presenterò ancora una volta “come una mano che saluta da un treno”. Ma rispetto alle presentazioni già fatte ci sono non una, non due ma tre novità. La prima è che si tratta della prima volta in cui mi reco fuori provincia, anche se di poco, a presentare un mio libro.  La seconda è che presento il libro insieme ad Andrea Bardelli, autore dello scatto di copertina.  La terza è che la presentazione sarà visibile anche in diretta Facebook.  Quindi non mi resta che dirvi che vi aspetto numerosi, sia che ve la siate già vista sia che per voi sia una novità assoluta.

Nessuna descrizione della foto disponibile.

EDIT (10/04/2019):  se ve la foste persa (SHAME ON YOU!), la presentazione è adesso disponibile anche su YouTube. Eccovela qua.