Altri verranno – tributo ai Sangue Misto

Uno dei più considerevoli prodigi che abbia prodotto l’internet, se lo chiedete a me, oltre a dare l’accesso ad una quantità sconfinata – e pertanto ingestibile – di informazioni, è l’aver potuto avvicinare persone che hanno gusti affini in determinate cose, le più eclatanti che mi vengono in mente sono ovviamente film, libri e musica. Mettendo insieme queste due, sono entrato appunto in contatto con Martino Vesentini, grandissimo esperto di hip hop italiano e in particolar modo di SangueMisto, Neffa, Deda, DJ Gruff e tutto quello che è germogliato attorno prima, durante e dopo quel disco folgorante che fu “SxM”. “Altri verranno” avrebbe dovuto, o se preferite potuto, essere il titolo del secondo disco del terzetto, quello che ad oggi non ha mai visto la luce e a questo punto viene da dire “chissà se mai”. Ma è anche un excursus su quello che è successo dopo, nelle carriere dei tre, con tutti gli alti e bassi che hanno fatto seguito all’avere introdotto in Italia un qualcosa che prima, volenti o nolenti, non c’era.

La copertina del libro di Martino Vesentini, opera di Alessia Santangeletta.

Di SangueMisto, rap italiano e varie altre cosette ho parlato anche in questo post qua, un annetto e rotti or sono. Martino però ha fatto di più: ha scritto un intero libro (che potete trovare ordinandolo in libreria, oppure qui o qui) su questo album, sull’epopea del trio che fu tra i primi a far uscire un genere musicale da una cerchia ristrettissima e farlo diventare cosa condivisa – dobbiamo fare lo sforzo di astrazione necessario di immaginarci, o in certi casi ricordarci, che al tempo esisteva un mondo senza internet inteso come strumento massificato e pressoché gratuito di accesso alla musica, per cui anche dire chi è arrivato primo, chi secondo e così via diventa un esercizio di retorica abbastanza stucchevole: a Bologna c’erano loro e gli Isola Posse, a Varese gli Otierrre, dalle mie parti Frankie Hi-Nrg, a Roma gli Assalti Frontali e i Colle Der Fomento, a Milano gli Articolo 31 e insomma mi fermo qui che sennò facciamo notte. Fatto sta: Martino Vesentini ha scritto un libro che parla di quello che è stato “SxM”, ma non in senso personale: quello che è stato per chi aveva quell’età lì in quegli anni lì, raccontandolo in tanti capitoli quante sono le tracce dell’album, e spostando la voce narrante facendola diventare a turno quella di Neffa, di Deda e di DJ Gruff. Il risultato è un lavoro che è insieme intimo e documentaristico, una fotografia che non diventerà mai sbiadita di quello che ha fatto vibrare i cuori di una generazione, e l’ha fatto forse nell’unico modo possibile di raccontarla alle generazioni successive. Il libro è già stato recensito molte volte e sicuramente molto meglio di come avrei saputo farlo io, così ho pensato che una cosa carina poteva essere fare delle domande all’autore stesso, sulle curiosità che la lettura del libro mi aveva suscitato, e che credo ragionevolmente non siano solo mie curiosità. Questo è il risultato della mini intervista.

  1. La prima domanda è d’obbligo: hai potuto parlare con Neffa, Deda e Gruff durante la stesura, o a libro ultimato? E se sì, cosa ti hanno raccontato?

Ho provato a contattarli a stesura quasi ultimata ma purtroppo non ho avuto modo di parlare di questo mio “progetto”, non avevo ancora un’idea precisa sul pubblicarlo o meno, avrei voluto prima farlo leggere a loro, mi sembrava doveroso, ma non è capitato e a quel punto ho deciso di farlo uscire comunque, autopubblicandolo!

  1. Dal libro si capisce che c’è un gran lavoro di ricerca “archivistica”. Qual è secondo te la più bella “perla” che hai scovato mentre cercavi materiali per il libro?

Gran parte del materiale che ho raccontato nel libro era archiviato nella mia memoria, stipato in un angolo ma ben presente, più scrivevo e più mi tornavano alla mente piccoli aneddoti che credevo dimenticati… alcune cose sono frutto della mia fantasia, per questo il libro è da considerarsi a tutti gli effetti un romanzo. Credo che la perla più bella sia l’inizio del racconto, perché descrive un momento che io stesso non conoscevo (nonostante mi ritenessi fino ad allora il più grande esperto vivente dei Sangue Misto!)… da Rockol.it ho infatti appreso che il giorno della partenza di Neffa e Deda per il Salento (per raggiungere Gruff e provare a scrivere il secondo album) coincise con l’uscita di “Aspettando il Sole” nelle radio… è proprio da questo episodio che decisi di iniziare a scrivere, prima di allora questo libro era solo un’idea parcheggiata nella mia testa!

  1. Il tuo dato anagrafico ha fatto sì che tanti momenti salienti raccontati nel libro li hai potuti vivere in prima persona: raccontare queste storie è stato più un viaggio dentro i SangueMisto o dentro te stesso?

Devo dire che la motivazione principale che mi ha spinto a scrivere è stata quella di mettere in ordine i ricordi di quei tempi, ero un appassionato di Hip Hop e, ascoltando tutto il rap che usciva ai tempi sia negli Stati Uniti che in Italia, avevo sentito nei Sangue Misto qualcosa di diverso, potente, maturo. La passione si è spenta dopo l’addio di Neffa alla scena, ma a distanza di più di 10 anni ho riscoperto la voglia di ascoltare nuovamente gli album con cui ero cresciuto, trovandoli comunque molto attuali e riuscendo a rispecchiarmici anche da persona più adulta e consapevole del mondo. Sicuramente questo viaggio nel tempo è stato molto utile anche a livello personale perché mi ha dato la consapevolezza di poter riuscire a pensare e realizzare qualcosa contando solo sulle mie capacità.

  1. Com’è ovvio che sia, ci sono nel libro molti momenti in cui c’è interazione con molti altri artisti contemporanei dei nostri tre, ma ci sono anche delle assenze illustri, da Joe Cassano (se non erro) a Frankie Hi-NRG (di questo sono sicuro), solo per dirne un paio. Sono assenze dovute a esigenze narrative, o semplicemente non c’era interazione tra i SM e una parte della scena hip hop italiana?

In realtà Joe Cassano è citato in uno degli ultimi capitoli, non ho approfondito la sua figura sia per esigenze narrative ma soprattutto perché conoscevo troppo poco la sua storia e sarebbe stato irrispettoso provare a raccontarla. Per quel che riguarda Frankie non credo abbia avuto un impatto sulla scena bolognese, anche lui comunque è citato in una riflessione in cui Neffa si trova per così dire “in disaccordo” con alcuni giornalisti che lo paragonano a Frankie/Articolo 31, non capendo quanto diversi fossero i loro stili. Ho comunque cercato di inserire nel racconto tutti gli artisti che hanno rappresentato qualcosa per me, oltre ovviamente ad aver inciso in qualche modo sulla vita artistica dei tre protagonisti.

  1. Secondo te quando uscirà il secondo disco dei SangueMisto? Io non ho ancora perso del tutto la speranza…

A malincuore ti rispondo che non credo accadrà mai, probabilmente va bene così, come hanno detto loro più volte “era già perfetto così SxM, non avrebbe avuto senso provare a farne un secondo…”. Ma una cosa che sogno davvero è che un giorno possano riunirsi su un palco, tutti e tre insieme, senza un progetto da promuovere, ne una scaletta di pezzi da fare, solo puro freestyle…

Casa Del Vento – Alle Corde (2022)

La copertina della mia copia, come recapitatami brevi manu da Luca Lanzi davanti alla Feltrinelli di Arezzo

Non credo di averglielo mai detto di persona, perché boh, immagino semplicemente non ci sia mai stata l’occasione e il contesto giusto per farlo, quindi approfitto di questo post per rimediare. Ho la fortuna di conoscere di persona due dei membri della band, e di entrambi ho una grande, grandissima stima personale, che deriva da certe situazioni che ho avuto – in momenti diversi – il piacere di condividere con loro. Storie di battaglie per la tutela dei paesaggi dei miei luoghi natii, storie di difesa della Costituzione, oltre ad esser loro eternamente grato per il disco “Sessant’anni di resistenza“, un album che avrò il piacere e l’onore di condividere coi miei figli, raccontando loro che questo è stato, nei nostri territori, in un tempo tutt’altro che remoto. Questa mia predisposizione favorevole nei loro confronti, che poi è anche il motivo per cui sono stato tra i primi (credo) a sostenere la “produzione dal basso” del loro nuovo album, mi rende poco adatto a doverne parlare in termini di recensione, in quanto in tutto questo preambolo ho già fatto capire come e perché l’oggettività del giudizio sia andata a farsi benedire. E però, a salvarmi c’è un però, i miei ascolti musicali non sono solitamente proprio vicinissimi alle sensibilità della Casa, quindi se preso in mezzo tra questi due estremi ho scelto di non scegliere il silenzio e di parlarvi di questo disco è perché secondo me lo merita. E insomma vabbè, i panni del recensore oggettivo li ho già smessi, quindi vi dico solo che questi dieci pezzi – anzi, dieci round, come sottolinea la grafica dell’album – mi hanno emozionato a più riprese. Nelle lettere ai propri genitori (“Il pane e le spine”, “Raccontami ancora”), in quella al figlio (“La tua vita”), nei pezzi che strizzano l’occhio ai Mumford & Sons (“Danza del mare”) , nelle ballad rock (“Mare di mezzo”, Kenmare”), nei pezzi con più verve (“Alle corde”, “Born in the ghetto” e “Sulla tua pelle”) e in quello più nel solco del folk rock che da anni ormai risuona nella Casa del Vento (“Girotondo a Sant’Anna”).

La pagina del booklet in cui mi ha messo la firma – in penna
rossa da me fornita – non è casuale.

La verità è che sono rimasto ammirato, all’ascolto, dalla capacità di songwriting (lo so, sembro uno che ne capisce, ma la realtà è semplicemente che sono uno che ascolta parecchia musica, e ho l’ardire di saper discernere, almeno a sensazione, se una canzone è stata scritta in modo “curato” o “di getto”, se è artefatta o reale, se è scritta col cuore o con gli algoritmi). La Casa del Vento scrive e interpreta sé stessa e le sensibilità che la abitano, in maniera eccelsa. Ed ecco che anche io, figlio del rock psichedelico, risvegliato dal grunge, ipnotizzato dai Radiohead e dai Massive Attack e nuovamente ridestato dal post rock dei Mogwai e dei Giardini di Mirò, ascolto e riascolto questo album, che ho in infinitesimale parte contribuito a far nascere per la stima di cui sopra etc etc, perché le canzoni che lo compongono non sono realmente quelle che immaginavo di trovarci, ma al tempo stesso sono assolutamente pezzi “da Casa del Vento”, un gruppo di musicisti veri e persone sensibili, che ha trasmesso quel che aveva da dire in questi dieci pezzi (dieci round, pardon!) in maniera schietta, semplice, diretta, con un folk rock appena appena contaminato che a me – degli ascolti di cui poco sopra – lo rende decisamente più orecchiabile. E allora viva la Casa del Vento, che a distanza di oltre vent’anni riesce ancora a scrivere canzoni autentiche. Di questi tempi, merce rara.

Anche i mostri si innamorano

La copertina del libro in tutto il suo splendore

Lo so, sembra strano anche a me, ma evidentemente io e Michele Borgogni, amico e autore indie (aiuto: non so se gli piace farsi chiamare così… vabbè, ormai è andata!) in coppia in qualche modo funzioniamo, visto che ancora una volta ci siamo trovati a presentare un suo libro, stavolta in un luogo molto caro a entrambi, il Circolo Aurora di Piazza Sant’Agostino ad Arezzo. L’occasione, stavolta, era la sua nuova raccolta di racconti, intitolata “Anche i mostri si innamorano” e pubblicata dalla Dark Abyss Edizioni con una copertina abbastanza inquietante, e quindi in linea coi testi contenuti nel libro stesso. La serata è stata piacevole, come sempre per me quando c’è da chiacchierare di libri in buona compagnia, e mi ha finalmente disvelato uno dei Segreti dell’Esistenza: il Liquore Strega è buono per davvero! Ma torniamo a noi: parlare di libri con un autore è sempre, per mille motivi che sarebbe qui inutile eviscerare od elencare, una cosa difficile, tranne quando l’autore non te la rende facile. Con Michele, fortunatamente, questo è il caso. Le chiacchierate libresche con lui riescono bene e piacevolmente, non vedo l’ora di farne altre!

Qui è dove Michele mi stava spiegando che alle presentazioni sarebbe più professionale bere solo acqua. (Foto di Francesco Alpini)

Come dite? Non ho detto nulla del libro? Ah, è vero. La sinossi, prima di tutto: frugando nella letteratura, nella mitologia, nella cinematografia, Michele Borgogni saccheggia il mondo dei mostri e ce li offre in undici racconti che provengono da ogni parte del mondo e da ogni tempo. Da Godzilla a Bigfoot, passando fra gli zombie e la terribile lamia, dal Giappone all’antica Grecia, l’autore colleziona undici storie, unite dal filo sottile dell’ironia. Divertente, originale, irriverente e, a volte, blasfemo, questa antologia racchiude una carrellata di mostri come non si sono mai visti, né letti.

Diciamocelo: di tanto in tanto, piace a tutti leggersi un po’ di sana narrativa horror. O almeno, a me piace. Ma le letture fatte in questo libro non sono dei “semplici” horror, per quanto gli strizzino l’occhio continuamente. È una letteratura più contaminata, ricca di citazioni, ironica e autoironica. Leggetelo, e che voi siate mostri o meno, vi innamorerete.

Ah, e se dopo averlo letto vi fosse venuta voglia di leggere qualcos’altro di suo, qua c’è una nostra chiacchierata attorno ad un suo libro.

Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile.

Io vorrei che tutti leggessero “Non tutto il male” di Andrea Cassini, edito da Effequ, perché sento il bisogno di confrontarmi con altri su questo libro. Vorrei che lo leggessero tutti perché io un libro come questo mi sa che non l’ho mai letto, ma non so se sia il libro o se sono io, come lettore, ad avere orizzonti limitati. Vorrei che lo leggesse qualcuno che non conosce l’autore, che non ci ha mai parlato, che non ci ha mai avuto a che fare, che non ha mai letto nulla di suo (come avete fatto?). Vorrei che chi lo ha letto mi scrivesse e mi dicesse che ne pensa di Zero, del Cartografo, della ragazza in bianco e della ragazza in nero, se anche secondo lui i fantasmi sono simili agli stand di JoJo, se ha capito chi era il cantante che si esibisce nelle gallerie della metropolitana, se è riuscito a farsi un’idea di che fine farà la città costruita sull’albero. Vorrei che chi lo ha letto mi dicesse che sì, è vero quello che sto per dirvi, e cioè che è un libro che nel bene o nel male non lascia indifferenti, che scava dentro, che parla di un mondo fantastico eppure così simile al nostro presente da lasciarci così, a pensare se è così che sta andando, che andrà, se davvero non riusciremo ad evitare che

Sopra un enorme albero è edificata una città. Ora l’albero è malato, per guarirlo è stato dato alle fiamme dal governo, che alimenta superstizioni e incoraggia sacrifici umani. La città vive al centro di un perenne incendio, e per le strade sono comparsi dei fantasmi: ciascuno si lega a un essere umano, assumendo la forma dei suoi traumi e sentimenti repressi. Più l’albero brucia per guarire, più la disperazione si propaga in città. Solo Zero non ha un fantasma ad accompagnarlo. Lui, che gestisce un redditizio forum online per i sempre più numerosi aspiranti suicidi, attraverso il suo lavoro scoprirà qualcosa che lega i fantasmi alla città e alle fiamme, e ricostruendo gli enigmi che compaiono nei suoi sogni si andrà immergendo, per volontà o per forza, in una missione che cela il significato di tutta la propria esistenza.
In una straordinaria metafora del rapporto malato tra uomo e natura, 
Non tutto il male ondeggia tra incubo e sogno, realtà e menzogna, per condurci al centro dell’epoca che stiamo attraverso una storia fantastica.

Bisogna saper perdere.

Ho avuto a che fare con Giorgio Barbareschi per la prima volta durante la stesura della Guida NBA de La Giornata Tipo 2019-2020. Dopo pochi giorni, ricordo che mise un video su Facebook in cui schiacciava a canestro in totale scioltezza, e la didascalia era una cosa del tipo “beh, non me la cavo male per avere 42 anni”. Ho rosicato molto. Superato l’impatto iniziale, ne ho avuto l’impressione di una persona molto alla mano, meticoloso, competente e al tempo stesso rilassato. Ho saputo solo dopo del suo passato da sportivo professionista. Vi dico com’è il tipo di impressione che mi sono fatto di lui perché è proprio per questo che penso che sia adattissimo ad aver scritto un libro sulle sconfitte sportive. In parole povere, direi che è perché quando si è praticato uno sport ad alto livello come ha fatto lui, si riesce a ponderare in modo diverso vittoria e sconfitta. E questa selezione di storie, dove l’ovvio trait d’union è che si racconta un avvenimento sportivo dal lato di chi ha perso, ci consegna soprattutto quello che splende, “on the dark side of the moon”. Perdere ma farlo a testa alta, perdere perché è l’unica cosa possibile, perdere per intervento esterno, perdere per il braccino, perdere per l’arbitraggio, perdere perché le troppe vittorie hanno dato alla testa, perdere perché tutti si aspettano che tu vinca. Ci sono sconfitte di ogni tipo, nello sport (che come spesso accade è anche metafora della vita), ma da ognuna di queste sconfitte possiamo trarre insegnamento: come sportivi, e quindi come persone. Il tutto raccontato con uno stile fluido, che ci narra il dramma interiore dello sportivo senza scadere in inutili esercizi di retorica: la cosa più difficile di questo libro, alla prova dei fatti, è quella riuscita meglio. Devo essere onesto: le scelte mi trovano d’accordo in nove casi su dieci, con la ragguardevole eccezione dell’ultimo capitolo, riguardante il calcio. Ma non perché la storia raccontata da Giorgio non sia affascinante, anzi, al contrario. Lo è in un modo che trascende la sconfitta e la vittoria, però. Il calcio è ingiusto, profondamente ingiusto, forse è uno degli sport più ingiusti, dove si può dominare per tutta la partita e venire puniti da un episodio, e allora le “sconfitte più brucianti” che mi vengono in mente sono altre: il Bayern Monaco che perde la Champions League dopo essere stato in vantaggio per 1-0 fino al novantesimo, il Milan che si fa rimontare da 3-0 a 3-3 per perdere ai rigori; l’Italia che perde gli Europei del 2000 al golden gol. Ma il bello di un libro come questo, alla fine, è anche pensare a quali storie ci sarebbe piaciuto leggere, o raccontare.

Che ne dici, Giorgio: ci possiamo aspettare in un prossimo futuro un “Bisogna saper perdere – volume 2”?

La politica è una cosa seria

Una volta sono stato a bere un bicchiere di bianco con Andrea Scanzi. Il vino l’ha scelto lui, e oltre a parlare del più e del meno, oltre che sostanzialmente di cavoli nostri, per tipo cinque minuti, ma forse anche meno, abbiamo parlato di politica. Ricordo che abbiamo parlato di Civati (su cui eravamo sostanzialmente d’accordo nel giudizio) e della Cirinnà (su cui lui era più tenero di me, ma alla fine, come si dice ad Arezzo, ci siamo intesi).

Questo preambolo mi è necessario per sviluppare un ragionamento, e il ragionamento è questo:  bere un bicchiere di vino è un tipo di esperienza che ti permette di capire un po’ meglio l’altro. E alla fine, parlando di Civati e della Cirinnà, io ho avuto la riprova di una cosa che pensavo già: Andrea Scanzi è una persona intellettualmente onesta. Ora, a beneficio di quei lettori che mi hanno già annoverato tra coloro i quali idolatrano Scanzi solo in quanto tale, lascio alcune considerazioni sparse.  Proprio perché stiamo parlando di una persona intellettualmente onesta, è plausibile che non ci si trovi d’accordo su tutto. Ad esempio, secondo me il suo post su Greta Thunberg non è condivisibile.  E la sua opinione su Salvini è migliore della mia, ma appunto, siamo al “secondo me vs. secondo te”. E questo mi porta a parlare – brevemente, lo prometto – del suo ultimo libro, uscito da qualche giorno per Rizzoli, e intitolato appunto La politica è una cosa seria.

                             La copertina del libro di Scanzi

Questo è tecnicamente un libro di saggistica. Con un sottotitolo assolutamente fuorviante, nel senso che non contiene effettivamente “dieci motivi per cacciare i pagliacci” (Rizzoli, perché lo fai?), quanto piuttosto le sue unpopular opinions su dieci personaggi politici, cinque del passato (di cui quattro additabili come “esempi positivi”) e cinque del presente (di cui quattro da ascrivere nei “cattivi esempi”) , più una bonus track: Berlusconi, D’Alema, Renzi, Salvini, Rodotà (vi lascio scoprire chi sia quello”positivo”) da un lato, e  Parri, Pertini, Andreotti, Berlinguer e Caponnetto dall’altro (chi sarà quello “negativo”?).  Se fosse una partita di basket, sarebbe giganti contro nani. La Bonus Track infine è dedicata a Pier Luigi Bersani. E qui, senza fare spoiler, vi invito a leggere il capitoletto con mente aperta, perché torniamo nel campo dell’onestà intellettuale.  Ora, a qualunque persona sana di mente è del tutto evidente che non tutto nel passato fosse da salvare così come non tutto nel presente sia da buttare, ma è sostanzialmente abbastanza condivisibile che, come cantava Giovanni Lindo Ferretti prima di rimanere folgorato, “il passato è afflosciato, il presente è un mercato”.  Non starò qui a dettagliare cosa ne penso delle opinioni di Andrea Scanzi relativamente ai dieci più uno, ma in ogni caso mi sento di condividere il mood di questo libro.  Che intendo dire con questa frase? Ve lo faccio spiegare da Andrea Scanzi stesso:

È una delle cose che mi fanno più male: la politica ridotta a tifo. La sinistra che si traveste da centro-destra pur di vincere a tutti i costi. E gli intellettuali a marcare visita, standosene belli zitti come Nanni Moretti, o peggio ancora a ridursi a giannizzeri come Roberto Benigni.

In questi tempi post-ideologici, dove rimanere – autenticamente – ideologici è uno dei più grandi regali che possiamo fare a noi stessi, l’unico modo per andare avanti è guardare al mondo con occhi disincantati, mente aperta e convinzioni ferme, quello che in gergo giornalistico si chiama “schiena diritta”.  Altrimenti non saremo mai in grado di interpretare il presente. come spesso, purtroppo, la mia parte politica non è stata in grado di fare in questi anni.  Cercando persino di dare la colpa di questo loro modo di fare ad Andrea Scanzi.

Ah, un’ultima cosa, sul presente e sulle interpretazioni: vi lascio qui una frase di una persona che ha fatto dell’onestà intellettuale un manifesto della propria vita. A voi scoprire – se già non lo sapete – di chi sto riportando le parole:

Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita.

Renzusconi – Andrea Scanzi

Uno – Captatio malevolentiae
Lo ammetto, non sono mai stato un grande fanatico degli “instant book” di politica e attualità. Non perché non mi interessino, anzi, ma perché capita spesso che contengano informazioni che già conoscevo, stralci di cose che avevo già letto altrove, e di quello che non sapevo ci sono cose interessanti, altre meno, altre che vengono superate dall’attualità. E comunque, tanto per contraddirmi un po’, capisco – e anzi, faccio il tifo per – la diffusione del genere: un libro è (dovrebbe essere) una forma di approfondimento rispetto ad un pezzo di giornale o online. E poiché io detesto la superficialità in tutte le sue forme ed espressioni, ben vengano i libri che approfondiscono argomenti legati all’attualità.

Detto questo,

Due – Contestualizzazione
E però il caso di Matteo Renzi è un caso del tutto particolare. Nel senso che la figura dell’ex Presidente del Consiglio è talmente stratificata, talmente – verrebbe da dire – costruita ed artefatta, da istigare esso stesso una serie pressoché infinita di riflessioni. Che per quanto mi riguarda potremmo riassumere brevissimamente in tre filoni:
PRIMO. Non mi piace farmi abbindolare dagli imbonitori che propinano slogan facili con poca sostanza sotto. La semplificazione parossistica del messaggio politico in atto in questi ultimi anni ha portato ad una cattiva politica, con l’effetto collaterale di allontanare la gente dalla politica, anziché avvicinarla, come probabilmente ci si proponeva di fare.
SECONDO. La “coda della cometa” Renzi è peggiore della testa. Non c’è peggior renziano di un renziano folgorato sulla via di Damasco dell’opportunismo politico.  Meglio un renziano della prima ora, molto meglio.
TERZO. I problemi del PD sono più ampi della sola – seppur ingombrante – presenza di Matteo Renzi. Ci sono proprio dei problemi di genesi e (conseguentemente) di gestione, che fanno sì che questo partito, che doveva essere un campo ampio di rappresentanza del “popolo” di centrosinistra, sia diventato un partito che non parla più con nessuno, se non coi dirigenti d’azienda, e che non rappresenta più nessuno, come dimostrano i dati apocalittici di calo del tesseramento, flop delle feste dell’Unità, risultati elettorali. Piazze vuote, urne vuote. Ma non è (solo) colpa di Renzi.

Ah si, dimenticavo: il paragone tra Renzi e Berlusconi, fatte salve alcune differenze non secondarie che comunque in questo libro vengono enunciate in premessa sia da Marco Travaglio che da Andrea Scanzi, ci sta tutto, perché di fatto hanno lo stesso identico modo di porsi, e spesso hanno messo in atto provvedimenti del tutto o in parte sovrapponibili. Facciamocene una ragione, e andiamo avanti.

  La copertina non è davvero niente male.

Tre – Recensione, circa
Non sono certo io a scoprire che Andrea Scanzi è una bella penna. Una bellissima penna, anzi.  E questo viene fuori anche in questo libro, ovviamente. Solo per fare UN esempio, parlando di Renzi e di Alessia Morani, riesce a fare un paragone (credibile e non strampalato) con un personaggio di un notissimo e longevissimo fumetto Bonelli, non vi dico quale, tanto lo scoprirete leggendo il libro.  E anche se magari in un suo libro si può non essere d’accordo su tutto (nella fattispecie: lo ritengo un po’ troppo duro nel suo giudizio su Matteo Bracciali, che ha perso sì il ballottaggio alle comunali di Arezzo, ma secondo me va anche detto che è l’unico ad aver fatto un lavoro mostruoso in campagna elettorale, mentre il PD quasi tutto si defilava più o meno esplicitamente, renziani inclusi), va detto che il ritratto che ci restituisce di Matteo Renzi è impietoso ma veritiero. I tratti dello “statista” di Rignano sono quelli, sono sotto gli occhi di tutti. Renzi è così: dice una cosa e ne fa un’altra, e forse proprio per questo piace ad una certa fascia d’età degli italiani, che dopo aver passato una vita a votare un partito che era all’opposizione, sono ben contenti di votare uno “che li fa vincere” (ma per fare cosa? Non importa, è secondario, poi si vedrà): la memoria non è mai stata il forte degli elettori italiani. Altrimenti non si spiegano cinquant’anni di DC e affini, più vent’anni (per ora) di Berlusconi. Renzusconi è un libro che non fa sconti, al personaggio come al lettore-elettore.  Se non vogliamo che anche quest’altro duri vent’anni, o peggio ancora cinquanta, spetta a noi. Possibilmente, non solo nelle bacheche di Facebook. Spetta a chi fa politica attiva, spetta a chi vorrebbe farla ma non si è mai deciso a metter piede in una sezione di partito, spetta a chi va a votare e ha il dovere di farlo in modo informato. Spetta ai politici restituire credibilità a loro stessi, al fine di invertire questa spirale sempre più drammatica che ha portato la maggioranza degli italiani all’astensione. Spetta a ognuno di noi (o quasi: alcuni – concordo con Scanzi – sono davvero irrecuperabili).

Quattro – Conclusioni
Renzusconi è un libro che si legge in un paio di serate, o anche tutto d’un fiato. Ma è soprattutto un libro che, dopo averlo letto e possibilmente interiorizzato, andrebbe messo bene in vista nella libreria di casa. E risfogliato tra qualche mese. Poi tra cinque anni. Poi tra dieci. Perché siamo TUTTI di memoria corta, come montagne di ghiaccio in un mare di navi.

Macerie Prime – volume 1

Sì, ho preso questa copertina qua.

Io lo sapevo.  Non avrei dovuto prenderlo il primo giorno. Perché ora mi tocca aspettare SEI MESI, SEI DANNATISSIMI MESI per leggere il seguito.  Eppure non ho resistito. Comprato il giorno dell’uscita, letto la sera stessa, metabolizzato in una notte.
Non è facile spiegarvi perché mi piace Zerocalcare, e questo c’entra solo fino a un certo punto con il fatto che siate o non siate lettori abituali di fumetti.  Ci provo, comunque:  perché Zerocalcare ha il rarissimo pregio di saper trattare con leggerezza – ma non troppa – una serie di temi che riguardano un numero di persone più grande di quello che probabilmente lui stesso potrebbe pensare. Cito testualmente per la prima volta (di due) quello che dice Zero nella presentazione che fa nel suo blog: “Non è un manifesto generazionale né una dichiarazione di intenti, peraltro essendo un libro in due parti se uno non è completamente scemo si può immaginare che alcune delle cose fissate in questo primo atto possono essere rovesciate nel secondo.” Eppure, leggendolo, ho ritrovato diversi pensieri, sensazioni, situazioni, stati d’animo che sono, sono stati, saranno anche miei.  Ovvio, i protagonisti sono di Roma mentre io ho sempre vissuto nei sobborghi di Arezzo, e quindi certe cose devo magari un po’ immaginarmele (questo per dire che capisco come mai Zero rifiuti l’etichetta di “manifesto generazionale” che è una cosa grossa e che dovrebbe trascendere anche certi riferimenti culturali e storici che invece, nel libro, tracciano una linea tra chi sta “di qua” e chi sta “di là”), ma la potenza di quello che dice, e mostra, questo libro è indubbia:

Per dire, una delle cose che maggiormente mi hanno segnato, in questo libro, è il restare fedeli a sé stessi, alle proprie idee e ai propri principi.  Che è una cosa difficile, come deglutire con una serie di chiodi infilati in gola.  Ed ecco, tutta la potenza del media fumetto. Non riesco ad immaginare la stessa espressione di un concetto come quello rappresentato nella vignetta qui sopra, per efficacia e sintesi, in nessun altro modo.

Oh insomma, lo so che vi sta scendendo l’attenzione.

Quindi non ve la faccio lunga, e vi spiego perché il secondo volume esce tra sei mesi, prendendo di nuovo a prestito le parole di Zerocalcare: “È un libro in due parti, perché sennò veniva un malloppo illeggibile di 400 pagine, e invece la seconda parte esce tra sei mesi, che sono pure i sei mesi che passano all’interno della storia tra il primo e il secondo atto, così uno si vive le cose in tempo più o meno reale.” E allora ok, ho fatto bene a comprarlo il giorno stesso dell’uscita, e a leggerlo subito: cercherò di non rileggerlo, anzi, fino all’uscita della seconda parte. Magari avrò la stessa sensazione di ricordarmi di ciò di cui stavamo parlando ma NON TROPPO nel dettaglio, così come i ricordi a volte dopo sei mesi sfumano un po’ nei dettagli.  Una mossa “filologicamente corretta”, alla fine. Mancano solo sei mesi all’uscita del secondo volume. Non vedo l’ora.
“Sì, ma il libro di che parla?” Guardate qua, così ve lo spiegano bene, potete dare un’occhiata alle prime pagine, comprarvelo.

Un disastro chiamato amore

Lo ammetto: io, così come i miei 3 o 4 affezionatissimi lettori, mai avrei – avremmo – pensato di poter parlare di un romanzo come “un disastro chiamato amore” di Chiara Giacobelli.  Eppure, per quelle strane coincidenze che nella vita talvolta accadono, i nostri percorsi si sono incrociati per vie traverse, ed ecco che questo mi ha portato alla lettura di questo libro.  Lettura avvenuta nel corso di un volo che mi stava portando in Australia, peraltro – questa segnatevela, perché dopo ci torniamo – e soprattutto risultata più piacevole e scorrevole di quello che avrei potuto pensare. E qui è dove ammetto che partivo prevenuto sul genere “romanzo rosa”. E invece “un disastro chiamato amore” è un libro che mi ha ricordato come nella vita bisognerebbe esserlo il meno possibile, prevenuti.

Ecco, la copertina non mi è piaciuta granché, ma sono dettagli.

Ecco, la copertina non mi è piaciuta granché, ma sono dettagli…

“Un disastro chiamato amore” è un romanzo piacevole, una lettura che intrattiene tenendoti sulla corda senza mai annoiarti – e ti paresse poco. La parte più interessante del libro – per chi scrive – è la caratterizzazione del personaggio principale.  Vivienne Vuloir, italo-francese che da Parigi deve trasferirsi in Liguria per scrivere una biografia su commissione, è veramente un disastro ambulante, e le gag che la vedono protagonista sono divertenti, ma non quanto le sue innumerevoli ansie e il suo modo “contorto” e molto femminile di pensare a tutto quello che le capita.  Una tra tutte – e torniamo alla voce “coincidenze” la paura di volare:  senza voler troppo rivelare della trama, per non rovinare il piacere della lettura, ad un certo punto della storia Vivienne deve decidere se prendere o meno un volo che la porterebbe in Australia.  Ecco, questa parte del libro l’ho letta a bordo di un aereo diretto a Melbourne!  Vivienne è vera, tridimensionale, rompicoglioni, impacciata e pertanto fa simpatia, anche a me che credo di essere il più atipico dei lettori di romanzi rosa che possiate immaginare. Io non lo so se Chiara Giacobelli si è ispirata a sé stessa per tratteggiare il personaggio, non la conosco così bene, ma per quel poco che la conosco immagino di si, che ci abbia messo dentro un po’ di sé. Il risultato è ok. Il solo appunto che mi sento di fare è che le figure maschili del libro, tranne ovviamente il protagonista maschile, Alex Lennyster, non sono altrettanto ben tratteggiate:  non che la trama ne risenta, però devo qui prendere le difese della categoria e dire che gli uomini sono altrettanto ricchi di sfaccettature caratteriali, spesso e volentieri.

Comunque, questo libro ha avuto per me un indubbio merito: mi ha aiutato a superare una sorta di “blocco mentale” che avevo nei confronti del genere letterario in sé.  Fino alla lettura di questo libro, ecco, direi che mi sarei potuto definire uno del tipo “non ho niente contro chi li legge, però…”, mentre invece adesso potrei tranquillamente definirmi come appartenente alla scuola di pensiero del “perché no? Mica si possono leggere solo cose impegnate nella vita!”

[…e dopo quest’ultima frase, corro a comprarmi l’ultimo libro di Noam Chomsky, così, tanto per fare pace col me stesso precedente!]

Scherzi a parte, “Un disastro chiamato amore” è stato una lettura davvero gradevole. Uno di quei libri che potreste tranquillamente far trovare sotto l’albero ad una vostra amica, fidanzata, moglie, mamma. Che vi ringrazierebbe del regalo. E poi vi chiederebbe: “ma quando esce il prossimo?”

Ah già, non ve l’ho ancora detto:  il libro ha una sorta di “finale aperto”, diciamo una porta a vetri attraverso la quale si vedono spiragli di un seguito che immagino sia più che un pensiero nella mente dell’autrice. Buona lettura, allora.  In attesa di sapere che altro ci sarà in serbo per Vivienne…

Acqua piena di acqua

La copertina di "Acqua piena di acqua"

La copertina di “Acqua piena di acqua”

Parlare di un romanzo come “Acqua piena di acqua” senza fare cenno all’intreccio narrativo in esso contenuto, per non rivelare nulla – o comunque il meno possibile – a chi ancora non lo avesse letto, è impresa non di poco conto, perché evidentemente è proprio nel dipanarsi delle vicende delle tre generazioni di donne che ne sono protagoniste che si può realizzare come quello che si ha tra le mani è un libro che racconta una storia che è sì inventata, ma che contiene pochi, pochissimi elementi romanzeschi in senso stretto.  Così, per parlarne, è necessario fare ricorso a metafore “acquatiche”, certi, così facendo, di non tradire l’idea originaria che sta alla base di questo testo.

“Acqua piena di acqua” è un libro che come un gorgo trascina sott’acqua, che a tratti fa desiderare ossigeno in modo quasi smanioso, che non fa sconti, pur senza bisogno di mostrare troppo, in netta controtendenza con una parte consistente della narrativa contemporanea dove molto è sacrificato sull’altare dello sbattere in faccia al lettore la realtà nuda e cruda.  Un libro che è un po’ come il mare, che a nuotarci stando a galla si arriva a vedere solo fino ai propri piedi, grosso modo, e che quando le profondità diventano più grandi ed estese, diventa cupo, e obbliga il lettore a prendere un respiro ed immergersi, se vuol vedere cosa c’è sotto.  Ma proprio come un gorgo, alla fine, restituisce tutto alla superficie, facendola ritornare piatta, calma, così da poter vedere chiaramente cosa si è salvato e cosa invece ha subito danni.  Questa concezione dell’acqua come fonte di vita e al tempo stesso come forza impetuosa e inarrestabile che tutto travolge ritorna spesso nel libro, sia nei continui richiami all’”acqua piena di acqua tinta di pece”, sia nelle infinite situazioni della vita in cui tutti noi, prima o poi, in un modo o nell’altro “siamo acqua”.  Dalla chiacchiera di paese, che come un rivolo d’acqua può scavare pazientemente anche la roccia più solida, ai cambiamenti che quotidianamente avvengono nella vita di ognuno, che come un sassolino gettato in uno stagno creano cerchi concentrici sempre più ampi che non sembrano fermarsi mai. E ancora, come un gorgo è la narrazione, che parte da un centro e poi vorticosamente se ne allontana, ma sempre con moto circolare e sempre con un centro ben definito, ben preciso, che è un centro sia narrativo – nel senso dell’evento attorno a cui tutto ruota, la morte di Letizia – sia emotivo:  perché “Acqua piena di acqua” ha una forza, soprattutto, nel presentare in maniera sempre convincente i pensieri delle tre donne che ne sono protagoniste.  Letizia, Anna, Ludovica sono tutte e tre donne costrette a fare i conti con il fiume degli eventi, e a realizzare che a volte ci si può anche far trasportare dalla corrente, ma che altre volte invece è necessario nuotare per non finire dove non si vorrebbe.

“Acqua piena di acqua” è un romanzo in cui molte situazioni e personaggi sono stereotipate, eppure questo in un certo senso ne costituisce la sua forza.  Il paesino di “provincia cronica”, come cantavano qualche anno fa i Baustelle, che dell’autrice peraltro sono conterranei.  Il sorgere dei primi condomini, che in tanti andarono ad abitare svuotando i centri storici.  La gente che “dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio”, per dirla con un altro cantante, quel Fabrizio De André che si meriterebbe anche lui un posto nella Storia della Letteratura, ma questa è un’altra storia.  Le donne tormentate e compresse tra il ruolo di angeli del focolare e il desiderio legittimo di affermare la propria identità.  Gli uomini che spesso, semplicemente, non si accorgono di quello che accade alle loro compagne e mogli, perché troppo concentrati su sé stessi, sul lavoro, genericamente “assenti”.  Tutti tratti che hanno caratterizzato la seconda metà del Novecento italiano:  alzi la mano chi non ha avuto modo di avere esperienza diretta con nessuna delle situazioni sopra descritte.  È un libro pubblicato nel 2016 anche se non lo sembra, e anche questo è un punto di forza.  Per lo stile, innanzitutto:  ricercato e molto classico ma senza autocompiacimenti.  Per il rifuggire da qualsivoglia “soluzione facile”:  non c’è alcuna volontà, in questo testo, di rassicurare il lettore che tutto andrà bene, ma non c’è neanche la frenesia tipica dell’oggi di anticipare che tutto andrà male.  Per l’ambientazione, infine:  un paesino della provincia italiana che potremmo spostare più a nord o più a sud senza che la sostanza cambi poi di molto; in un periodo storico di trasformazioni societarie profondissime, ma che in questo romanzo restano sempre – giustamente – ai margini, perché non funzionali alla narrazione.  “Acqua piena di acqua” un libro un po’ fuori dagli schemi rispetto al romanzo contemporaneo, scritto e narrato da una voce femminile senza però risultare poco comprensibile, o astruso, ad un lettore uomo.  Perché la mente umana, maschile o femminile poco importa, è come il mare:  per riuscire a vedere un po’ più a fondo, l’unico modo possibile è accettare di immergersi sotto la superficie.  Fate un respiro profondo, immergetevi nella lettura.   Sott’acqua ci sono dei pesci che vale davvero la pena di vedere più da vicino.

Cinzia Della Ciana, Acqua piena di acqua”, 2016, Effigi Edizioni, 192 pp., Euro 14,00.