Correva l’anno 2009. Abbiamo fatto questa chiacchierata, che è diventata non uno ma DUE articoli per Casentino Più, tanti erano gli spunti. Adesso che non ci sei più – e io faccio ancora fatica a realizzarlo – è giusto condividere ancora una volta con tutti quelli che ti hanno voluto bene, ed erano veramente tanti, quello che mi hai raccontato. Ciao Cordero, mi mancherai, sul serio.
PRIMA PARTE
Cordero Governini – Una vita a Capolona, una vita per Capolona
È una tradizione diffusa, dalle nostre parti, ma soprattutto una fortuna, che in ogni paese ci siano persone che nel corso di tutta la propria vita si sono distinte per l’impegno nel territorio, sia che si tratti di impegno civile, sociale o politico. Dico “soprattutto una fortuna” perché queste persone, per il numero di concittadini con cui sono stati a contatto, di eventi a cui hanno partecipato, di momenti storici che hanno vissuto, rappresentano in un certo senso la memoria storica di un paese.
Per il paese di Capolona, una di queste persone è sicuramente Cordero Governini, presidente onorario del Centro Sociale Arno (ma di questo parleremo un’altra volta), ex dipendente del Comune di Capolona, tuttora sempre attivo dalla mattina alla sera a dispetto degli ottantotto anni compiuti a marzo. L’occasione per incontrarlo nasce da un’idea: raccontare, non a caso nel numero di questo mese, il 25 aprile nel basso Casentino. Anzi, farsi raccontare quegli anni da chi c’era, da chi ha potuto vedere come era prima, come è stato durante, cosa c’è stato dopo la Grande Guerra.
Com’era il territorio del Comune di Capolona, prima della guerra?
Io sono nato e abitavo a Castelluccio, in una famiglia di mezzadri. Il paese di Capolona, dove vivo adesso, praticamente non esisteva: la gente viveva principalmente nei paesini sulle colline. Molti erano agricoltori, boscaioli o cavatori di ghiaia, a Capolona e a Buon Riposo, e vendevano la rena e la ghiaia dell’Arno ai muratori di Arezzo. Quando la guerra cominciò, anche se l’Italia ufficialmente non c’era entrata, erano già in atto tante manovre che avrebbero fatto capire cosa sarebbe successo dopo. Io fui chiamato alle armi nel mese di agosto del 1939, e venni destinato alla Scuola della Marina di San Bartolomeo di La Spezia. Il 10 maggio del 1940 venni mandato a Gaeta per imbarcarmi nel cacciatorpediniere “Lanciere”. Un mese esatto più tardi, l’Italia entrava in guerra.
E quando sei tornato a casa definitivamente?
Allora la ferma militare era molto lunga, tanto è che il congedo vero e proprio mi arrivò – per riforma – solo alla data del 31 dicembre 1945, quando la guerra era ormai finita. Ma nel 1943 la situazione cominciò a precipitare. In quel periodo, mi trovavo a Trapani imbarcato sulla corvette “Artemide”, che faceva da scorta ai convogli che trasportavano persone e merci nell’Africa settentrionale. Al rientro da una missione, una mina magnetica ci squarciò la fiancata della nave e fummo costretti a rientrare in porto. L’8 settembre 1943, l’”Artemide” venne portata a Livorno per le riparazioni, e l’equipaggio alloggiava in delle baracche di legno ad Antignano. In quel periodo, la Marina italiana e quella tedesca cercavano i marinai in libera uscita per imbarcarli sulle navi tedesche. Nelle baracche, però, non c’era nessun ufficiale, e i membri dell’equipaggio se ne andavano a casa a piedi. Fu in quel momento che, insieme ad un amico fiorentino, decidemmo di fabbricarci una “Licenza illimitata in attesa di ordini superiori”, con tanto di timbro e firma, che ci permise di superare i controlli e non essere presi dai tedeschi. Dopo tre giorni, l’11 settembre 1943, ero tornato a casa. Purtroppo, al ritorno mi ammalai e venni chiamato all’ospedale San Gallo di Firenze, dove venni dichiarato “convalescente” fino al momento del mio congedo.
Cosa succedeva, nel 1943, a Castelluccio?
La gente era in fermento per via della guerra, ovviamente. Il campo di concentramento di Laterina era stato appena smantellato, e la gente andava a prendere armi da laggiù per i partigiani che si erano dati alla macchia. Mi ricordo che il parroco di Ponina, don Tarquinio Mazzoni, che poi sarebbe stato anche sindaco pro-tempore del Comune di Capolona, nominato dal Comitato di Liberazione Nazionale, era il contatto tra la gente comune e i partigiani. C’era la voce, in paese, che nascondesse le armi da dare ai partigiani in cima al campanile della chiesa, anche se io non ho mai potuto vedere di persona se fosse vero. Si erano anche costituite le prime cellule – ovviamente clandestine – del PCI. Le prime riunioni venivano fatte lungo l’Arno, perché all’epoca c’era ancora la paura di quello che poteva succedere sia con i tedeschi sia con i fascisti. Una volta abbiamo temuto l’arrivo di una rastrellata proprio vicino casa mia: in una capanna tenevamo nascosti cinque evasi dal campo di Laterina, che però non sempre riuscivano a restare al loro posto.
Chi c’era, di quegli anni, porta spesso con sé ricordi dolorosi.
E io purtroppo sono tra quelli. La mia famiglia aveva la casa comunicante con quella della famiglia Ricciarini. Una sera, i primi di giugno del ’44, Rino Ricciarini era andato a Campoluci dagli zii, e quando si fece buio il babbo Gigi lo andò a cercare, e io con lui. Ero in maniche di camicia, e quando arrivammo al fiume, io tornai indietro verso casa perché avevo freddo. Gigi rimase, e chiamava il figlio a voce alta dalla sponda dell’Arno, perché aveva paura che lo avessero catturato, come in effetti era successo. Non ero ancora rientrato quando sentii la sventagliata di mitra. Rino rientrò dopo poco, perché era riuscito a scappare, e mentre correva vide un uomo a terra. Non vedendo tornare Gigi, capimmo cosa era successo. Quando andammo a vedere, lo trovammo steso a terra ma composto, con la tabacchiera appoggiata sul petto. Dopo meno di due mesi, Arezzo era stata liberata, ma la vita riprese a poco a poco. Le prime elezioni comunali si tennero il 17 marzo del 1946, e venne eletto sindaco Rubini, che però morì poco dopo. Quindi fu la volta di Santino Gori, mio suocero, che restò in carica per 15 anni. A Castelluccio adesso c’è una via che porta il suo nome, proprio dove venne ammazzato Gigi Ricciarini.
E secondo te, oggi, come vive il 25 aprile la gente? Ha ancora senso continuare a celebrarlo?
Certo che ha senso, anzi, guai se non lo si facesse. Forse però la gente sta pian piano perdendo il senso di questa celebrazione, in parte perché sono sempre meno quelli che c’erano, all’epoca, e in parte perché forse non si fanno abbastanza sforzi per tenere vivo il ricordo. Ad esempio, nelle scuole del paese si potrebbero raccontare di più e meglio i fatti avvenuti a livello locale, perché sono quelli che possono contribuire maggiormente a tenere vivo l’interesse dei giovani per quel periodo storico. E forse anche le istituzioni potrebbero fare qualcosa in più.
In che modo, ad esempio?
Faccio un esempio concreto. La via che porta alla stazione di Subbiano, nella parte alta del paese di Capolona, si chiama “banalmente” via della Stazione di Subbiano. Ma lì sono stati ammazzati due giovani partigiani, Vasco Lastrucci ed Enzo Zavagli, che vennero prelevati dalla Caserma di Subbiano, picchiati e torturati lungo i binari della ferrovia e infine fucilati. Forse sarebbe stato più giusto che quella via portasse il loro nome. Così come forse sarebbe stato il caso dedicare delle strade ad altri che in quegli anni hanno avuto un ruolo importante, spesso trovando la morte. Come Don Rinaldo Cacioli, che morì in Africa, come Gigi Ricciarini e Don Tarquinio Mazzoni, di cui ti ho già raccontato. Come tanti altri di cui ora mi dimentico ingiustamente…
Per fortuna, aggiungiamo, per questo non è certo troppo tardi. Così le istituzioni locali, che hanno giustamente intitolato una piazza a Licio Nencetti, le cui imprese in Casentino tutti conosciamo e ricordiamo; ed una via a Roberto Assagioli, psichiatra di fama internazionale (di cui un giorno o l’altro parleremo più diffusamente); potrebbero fare uno sforzo ulteriore e andare a ricercare i nomi di quelli che hanno contribuito a rendere le nostre terre libere e bellissime come lo sono oggi. Come Arioldo Arioldi, partigiano recentemente scomparso, detto “Uno”. Come tanti altri di cui non è giusto che si perda la memoria.
SECONDA PARTE
Cordero Governini – Una vita a Capolona, una vita per Capolona
Il mese scorso, in concomitanza con le celebrazioni del 25 aprile, abbiamo parlato con Cordero Governini, cittadino di Capolona molto noto tra la popolazione locale, di cosa succedesse in quegli anni nelle nostre zone. Nel dopoguerra, mentre tutta l’Italia si ricostruiva, anche a Capolona si cercava di fare lo stesso. Ci furono i primi operai, l’avvento della fabbrica Soldini e un’espansione dell’attuale capoluogo comunale, che da poche case vicino alla chiesa raggiunse in breve tempo dimensioni molto vicine a quelle attuali. In tutti quegli anni Cordero è stato un dipendente del Comune di Capolona, oltre che una persona molto attiva sia politicamente sia nelle associazioni locali. Così, una volta raggiunta l’età della pensione, grazie anche alle richieste che gli provenivano dai cittadini, prende la decisione di imbarcarsi in un nuovo, ambizioso ma bellissimo progetto, quello di creare un centro di aggregazione sociale per gli anziani del territorio di Capolona e di Subbiano. Questa struttura, oggi, ad oltre vent’anni dalla sua inaugurazione, esiste ancora, conta centinaia di soci ed è interamente gestita grazie al lavoro di volontari. Cordero ne è tuttora il presidente onorario, così ci siamo fatti spiegare da lui com’è nato il Centro Sociale “Arno”.
In che anno è nata l’idea di creare un centro di aggregazione sociale per gli anziani del posto?
La prima assemblea per presentare il progetto, stendere uno statuto e partire con i lavori si svolse il 15 marzo 1986 nella sala del Consiglio Comunale di Capolona, alla presenza dei Sindaci di Capolona e Subbiano, dei rappresentanti dei sindacati e di 60 pensionati interessati all’idea. In quella sede, si decise di dare corpo al progetto che prevedeva la sistemazione dell’ex mattatoio comunale, ormai dimesso da anni. Venne approvato uno statuto, si decise di aprire un conto corrente per chi avesse deciso di contribuire economicamente all’iniziativa, e venne scelto un comitato provvisorio, con un “presidente pro-tempore”, che ero io: il mio incarico, però, è poi durato per 20 anni, altro che pro-tempore!
Da chi è partita l’idea di creare una struttura del genere?
L’idea venne da una decina di persone, che come spesso succede ai pensionati nei paesi delle nostre zone, passavano le loro giornate andando a giocare a carte nei bar del paese, ma non si trovavano molto a loro agio in questi locali. Queste persone vennero da me, che ero stato dipendente del Comune di Capolona fino a poco prima, quindi amministratore e Assessore alle Politiche Sociali e che quindi potevo costituire un tramite efficace con l’istituzione. Così, insieme a una decina di loro, chiedemmo un incontro al Sindaco di allora, Alberto Ciolfi, per capire se c’era la possibilità di creare nel territorio di Capolona un Centro di Aggregazione Sociale. Oltre a questo, proponevamo alla giunta di istituire, per i Comuni di Subbiano e Capolona, la “festa dell’anziano”, il giorno dell’Epifania, con un pranzo offerto dalle due Amministrazioni. Questa festa è ormai giunta alla diciannovesima edizione: nelle edizioni di maggior successo, siamo arrivati ad avere anche 350 persone, con soddisfazione non solo mia ma anche di tutti i presenti e delle Amministrazioni Comunali.
Quando sono stati inaugurati i locali?
La cerimonia di inaugurazione dei locali si svolse il 10 di gennaio del 1988, dopo quasi due anni di duro lavoro, alla presenza dei sindaci di Capolona e Subbiano, del Prefetto di Arezzo e dell’Assessore Regionale alle Politiche Sociali, Bruno Benigni. Alla cerimonia seguì un pranzo con prodotti tipici delle nostre terre casentinesi. La sala era stata collaudata e aveva ottenuto il parere favorevole della Commissione Tecnica Provinciale. Quasi due anni di lavoro interamente gratuito, anche per dieci ore al giorno, da parte dei promotori del Centro, degli anziani del nostro paese, erano finalmente giunti a conclusione nel migliore dei modi. Fu una soddisfazione incredibile.
Il lavoro su questa struttura è stato interamente volontario, dunque. E come avete fatto a trovare i soldi necessari a portare avanti i lavori?
Il costo dei lavori fu complessivamente di 16.700.000 lire, raccolte interamente tramite offerte che ci venivano fatte dai cittadini spontaneamente. Andavamo a chiedere un contributo agli amici, ai negozianti, perfino a raccogliere fondi al mercato settimanale. Alla fine, arrivammo a raccogliere 17 milioni di lire, anche più del necessario! Dicevano di me che ero “un buon frate da cerca”, perché a tutti chiedevo e tutti davano, per la creazione del Centro.
E quali sono state le prime difficoltà che avete dovuto affrontare, nella realizzazione di questo Centro?
In realtà, di difficoltà vere e proprie non ce ne sono mai state. La gente si offriva spontaneamente di collaborare con il progetto perché ne capiva la bontà. Ciascuno metteva a disposizione quello che aveva: qualcuno è venuto a fare lavori con i mezzi della propria impresa edile, qualcun altro ha messo a disposizione le competenze in fase di progetto, altri venivano a dare una mano semplicemente perché avevano un po’ di tempo libero, per amicizia. Perfino l’arredamento del bar e dell’ufficio ci vennero regalati, a volte da privati cittadini, a volte da cooperative, altre volte da banche e istituzioni locali.
Com’è, oggi, il Centro Sociale “Arno”? Cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale rispetto a 21 anni fa?
Il Centro è stato da sempre convenzionato con l’ARCI. Questa cosa venne decisa nella prima assemblea del 1986 e da allora è sempre stato così. Sono aumentati i tesserati: il primo anno arrivammo ad un’ottantina di iscritti, ma negli anni siamo arrivati anche a superare i 550. I bilanci del Centro sono sempre stati in attivo, e la struttura negli anni si è ingrandita e di parecchio: rispetto ai circa 100 metri quadri di quando abbiamo aperto, adesso la superficie totale è di quasi 9000 mq. I rapporti con le amministrazioni comunali che si sono succedute negli anni sono sempre stati ottimi: venne stabilito un canone di affitto annuo di 2 milioni di lire, che adesso sono diventate 1035 euro.
Attualmente, quali sono le attività che il Centro Sociale porta avanti?
Le attività sono molte e rivolte a diverse fasce di età. Il Centro “Arno” sta diventando sempre più un centro di aggregazione sociale che si rivolge a tutti e non solo agli anziani come era agli inizi. Tutti i giorni dei volontari tengono aperto il bar e il pallaio per le bocce di pomeriggio e di sera. Vengono fatti dei corsi di ginnastica dolce per anziani, delle scuole di ballo a cui partecipa anche un buon numero di giovani, e da quest’anno anche una scuola di danza classica. Tutti i sabati e le domeniche viene aperta la sala da ballo. Ogni anno, insieme al Comune di Capolona, vengono organizzate le vacanze estive per gli anziani del posto. La struttura viene utilizzata anche per riunioni sindacali, e numerose sono state le iniziative che si sono svolte via via al Centro Sociale. Tra queste, cito le riunioni per il Distretto Sanitario di Subbiano, il Convegno Regionale degli Architetti del luglio 2007, le selezioni per il concorso nazionale di Cabaret “Cabawave”, le cene multietniche… ma potrei continuare ancora per molto!
Con questa seconda parte dell’intervista si conclude la nostra lunga chiacchierata con Cordero Governini, una persona che – lo ricordiamo per chi si fosse perso la prima parte – ha la bellezza di 88 anni, e ancora guida la macchina e ha una vita attivissima. Quello che fa lui è quello che in pochi, sempre in meno, fanno al giorno d’oggi: mettersi a disposizione del proprio paese, della propria gente. Probabilmente è anche per questo che tutti lo conoscono e tutti, soprattutto, lo rispettano e lo ammirano. Anche chi ha avuto visioni politiche diverse dalla sua, anche chi negli anni ha abbandonato per motivi vari l’impegno con il Centro Sociale “Arno”. Per tutti, Cordero è comunque d’esempio.