Ci sta che lo sappiate: per molti versi, posso dire che il mio cammino giornalistico è partito da Amaranto Magazine. Per questo, è un piacere ritornare dopo un po’ a scrivere per loro.
La copertina della mia copia, come recapitatami brevi manu da Luca Lanzi davanti alla Feltrinelli di Arezzo
Non credo di averglielo mai detto di persona, perché boh, immagino semplicemente non ci sia mai stata l’occasione e il contesto giusto per farlo, quindi approfitto di questo post per rimediare. Ho la fortuna di conoscere di persona due dei membri della band, e di entrambi ho una grande, grandissima stima personale, che deriva da certe situazioni che ho avuto – in momenti diversi – il piacere di condividere con loro. Storie di battaglie per la tutela dei paesaggi dei miei luoghi natii, storie di difesa della Costituzione, oltre ad esser loro eternamente grato per il disco “Sessant’anni di resistenza“, un album che avrò il piacere e l’onore di condividere coi miei figli, raccontando loro che questo è stato, nei nostri territori, in un tempo tutt’altro che remoto. Questa mia predisposizione favorevole nei loro confronti, che poi è anche il motivo per cui sono stato tra i primi (credo) a sostenere la “produzione dal basso” del loro nuovo album, mi rende poco adatto a doverne parlare in termini di recensione, in quanto in tutto questo preambolo ho già fatto capire come e perché l’oggettività del giudizio sia andata a farsi benedire. E però, a salvarmi c’è un però, i miei ascolti musicali non sono solitamente proprio vicinissimi alle sensibilità della Casa, quindi se preso in mezzo tra questi due estremi ho scelto di non scegliere il silenzio e di parlarvi di questo disco è perché secondo me lo merita. E insomma vabbè, i panni del recensore oggettivo li ho già smessi, quindi vi dico solo che questi dieci pezzi – anzi, dieci round, come sottolinea la grafica dell’album – mi hanno emozionato a più riprese. Nelle lettere ai propri genitori (“Il pane e le spine”, “Raccontami ancora”), in quella al figlio (“La tua vita”), nei pezzi che strizzano l’occhio ai Mumford & Sons (“Danza del mare”) , nelle ballad rock (“Mare di mezzo”, Kenmare”), nei pezzi con più verve (“Alle corde”, “Born in the ghetto” e “Sulla tua pelle”) e in quello più nel solco del folk rock che da anni ormai risuona nella Casa del Vento (“Girotondo a Sant’Anna”).
La pagina del booklet in cui mi ha messo la firma – in penna rossa da me fornita – non è casuale.
La verità è che sono rimasto ammirato, all’ascolto, dalla capacità di songwriting (lo so, sembro uno che ne capisce, ma la realtà è semplicemente che sono uno che ascolta parecchia musica, e ho l’ardire di saper discernere, almeno a sensazione, se una canzone è stata scritta in modo “curato” o “di getto”, se è artefatta o reale, se è scritta col cuore o con gli algoritmi). La Casa del Vento scrive e interpreta sé stessa e le sensibilità che la abitano, in maniera eccelsa. Ed ecco che anche io, figlio del rock psichedelico, risvegliato dal grunge, ipnotizzato dai Radiohead e dai Massive Attack e nuovamente ridestato dal post rock dei Mogwai e dei Giardini di Mirò, ascolto e riascolto questo album, che ho in infinitesimale parte contribuito a far nascere per la stima di cui sopra etc etc, perché le canzoni che lo compongono non sono realmente quelle che immaginavo di trovarci, ma al tempo stesso sono assolutamente pezzi “da Casa del Vento”, un gruppo di musicisti veri e persone sensibili, che ha trasmesso quel che aveva da dire in questi dieci pezzi (dieci round, pardon!) in maniera schietta, semplice, diretta, con un folk rock appena appena contaminato che a me – degli ascolti di cui poco sopra – lo rende decisamente più orecchiabile. E allora viva la Casa del Vento, che a distanza di oltre vent’anni riesce ancora a scrivere canzoni autentiche. Di questi tempi, merce rara.
OK Computer, il disco che amo di più della band che amo di più, ha compiuto 25 anni. Ho pensato di celebrarlo dedicando un post su Facebook ad ognuna delle canzoni del disco. Poiché mi sembra che l’idea sia piaciuta, li raccolgo tutti qui, “per chi l’ha visto e per chi non c’era”.
Un particolare della meravigliosa copertine di Stanley Donwood & Tchock(al secolo Thom Yorke)
Airbag OK Computer me l’ha passato il mio compagno di banco del liceo, che l’aveva comprato perché aveva sentito alla radio Karma Police e gli era piaciuta. Dopo pochi ascolti, ovviamente, avevo deciso che era necessario che anch’io ne avessi una mia copia: avevo quasi diciott’anni e una voglia incredibile di distinguermi, ma al tempo stesso sentivo un indefinito bisogno di elevarmi tramite la bellezza, e quando si ha quasi diciott’anni queste due pulsioni trovano spesso sbocco nella musica. L’attacco di chitarra di Airbag, da sempre e per sempre, è per me memoria proustiana di una porta che si apre, mi dischiude un mondo fin lì sconosciuto e misterioso, ma dal quale non sono mai più uscito.
Paranoid Android Le feste in casa negli anni 90 erano una cosa un po’ così, molto più alla buona di come immagino siano quelle di oggi. Serviva avere uno spazio abbastanza grande, divani, uno stereo, un tavolo con delle robe da mangiare, genitori consenzienti, un certo numero di persone meglio se assortite, un certo numero di bottiglie meglio se assortite, un certo numero di CD meglio se assortiti. Se anche qualcuno si accollava l’onere di predisporre quella che oggi per comodità chiameremmo playlist, in genere su audiocassetta, non era mai sufficientemente lunga per coprire la durata della festa, e allora a un certo punto potevi impossessarti del controllo dello stereo e mettere un po’ quello che ti pareva, tanto tutti chiacchieravano, mangiavano, bevevano o corteggiavano – spesso anche tutte queste cose contemporaneamente: se andava bene, potevi restare allo stereo e mettere quello che ti pareva. Se andava male, qualcuno ti insultava e si metteva al posto tuo. E insomma, non so com’è stato possibile, ma ho il ricordo distinto che durante una di queste feste, qualcuno (non io, ahimè) ha messo questa, e com’è come non è, dopo poco eravamo tutti lì a cantarla, sostituendo al continuo refrain Rain Down il cognome di uno dei presenti. Una cosa talmente surreale che subito dopo, per stemperare, qualcun altro mise i NoFx.
Ci divertivamo male, negli anni 90, probabilmente, ma questo pezzo sembra scritto ieri, o un secolo fa, o tra cent’anni. E invece era di quel tempo lì, di quando io avevo quasi diciott’anni.
Subterranean homesick alien Quando hai quasi diciott’anni hai una conoscenza del mondo piuttosto limitata ma in un certo senso pensi di sapere tutto. Io per dire sapevo che esisteva un cantautore di nome Bob Dylan che faceva cose con la chitarra e un’armonica a bocca come quella che sapeva suonare il mio babbo, e questo Subterranean Homesick Qualcosa mi suonava stranamente familiare in un qualche angolo della memoria. Avevo pensato, leggendo la tracklist, che in questo disco avessero voluto infilare una cover, ma già dal primo ascolto mi sono reso conto che mancava l’armonica a bocca, che la mia conoscenza dell’inglese era (è) ancora da affinare, e che nella vita sarei sempre dovuto partire dal presupposto che non ci ho capito niente – nella musica, nell’inglese e in tutto ciò che mi circonda, soprattutto nelle persone. Una lezione che cerco di applicare ancora adesso, anche a costo che qualcuno pensi that I’d finally lost it completely.
Exit music (for a film) Se c’è una cosa nella quale mi dichiaro cronicamente e irreversibilmente ignorante, questa è il cinema. Guardo pochissimi film, ci ho provato ma davvero per me è un casino: ho bisogno di silenzio, concentrazione assoluta e della giusta predisposizione d’animo. Hai detto niente. Ecco, so benissimo che QUESTO film è un po’ un cult movie per la mia generazione, ma non l’ho mai guardato per intero. Mi sono sempre fatto bastare quel you can laugh, a spineless laugh che mi scende dal collo lungo la schiena, e mi ricorda che il potere di una chitarra acustica e una bella voce trascende tutto il resto, ha una forza che può perfino essere salvifica.
Let down sono arrivato a quasi 18+25 anni senza un tatuaggio, il che mi porta a pensare che potrei effettivamente chiudere a quota zero, anche se boh, chi lo sa. Ma se non ne ho fatti con l’inchiostro, ci sono alcune frasi, alcuni versi che sono impressi indelebilmente sul cuore e nella memoria. Sarà per questo che quando parte quel One day I am going to grow wings mi capita ogni volta di sentire un brivido che a volte mi fa perfino venire la pelle d’oca. Let Down è una di quelle canzoni che non sono state per me amore a primo ascolto, anche e soprattutto per la posizione nella tracklist, in mezzo tra le due canzoni più “immediate” dell’ intero album. E però, proprio perché è stato amore a secondo o terzo ascolto, è stato amore vero e duraturo.
Transport Motorways and tramlines Starting and then stopping Taking off and landing The emptiest of feelings Disappointed people Clinging onto bottles And when it comes it’s so, so disappointing Let down and hanging around.
Karma police Il 1997 è la preistoria e io conseguentemente sono un dinosauro, me ne rendo conto mentre lo scrivo, eppure che ci crediate o meno è esistito un periodo storico, nemmeno troppo lontano se considerate che io sono qui a raccontarvelo con ancora la quasi totalità dei miei neuroni intatti, in cui le radio erano sostanzialmente esenti dal reggaeton – pensate: se un cantante italiano infilava una parola in spagnolo in una canzone era uno strappo alla regola – e in cui si potevano comporre pezzi con arrangiamenti minuziosi, usando pianoforte, chitarre, strumenti elettronici e infilando nel testo riferimenti a 1984 di George Orwell, e comunque passare nelle radio c.d. generaliste, venire prodotti da una Major, finire in classifica, semplicemente perché la canzone era bella. Già. Semplicemente perché la canzone era bella, e lo è ancora, di una bellezza intatta che il tempo non scalfisce.
Fitter happier Visto che io adoro fare le cose al contrario, fitter happier non l’ho mai skippata e ho anzi sempre voluto capire a fondo cosa dicesse quella voce robotica che parlava con un unico tono su una base elettronica minimal-ma-neanche-troppo. Volevo capirlo perché intuivo che si trattasse di una critica niente affatto velata alla societa di quegli anni, anzi, alla deriva che avremmo preso da lì in avanti, a 25 anni dopo, al nostro futuro che nel frattempo è diventato il nostro presente. No bad dreams, no paranoia. Fitter happier mi ha sempre sconvolto, e per questo le sarò eternamente grato. Per avermi aiutato a realizzare che non voglio essere solo a pig in a cage on antibiotics.
Electioneering “Genna, famme una cassetta un po’ mista, ma senza robe pallose sennò te cigno”. La richiesta veniva da un compagno di liceo, e io alla fine eseguii. Se non sbaglio, il risultato finale fu anche apprezzato (non ricordo che mi abbia cignato, non in quell’occasione almeno). Il problema è che in quei giorni io ero in fissa totale con OK Computer, e avevo deciso che ci avrei messo qualcosa preso da lì, ad ogni costo. Scelsi questa, la canzone forse più fuori contesto dell’intero album, almeno musicalmente, ma che ci stava, eccome: una scossa elettrica dopo fitter happier per prepararci a quel che sarebbe venuto dopo. Nell’album, certo, ma ancora di più nella vita.
Riot shields Voodoo economics It’s life, it’s life It’s just business Cattle prods and the I.M.F.
Climbing up the walls Arriva un momento, nella vita di ognuno di noi, in cui scopriamo il valore dell’ascolto della musica a volume alto, ma alto per davvero. Non è uguale per tutti, e non è uguale per tutte le canzoni. Per me questo momento è arrivato con l’ascolto di questa canzone, una sera, anzi, diciamo pure tarda notte, in macchina, rientrando da una normalissima serata ad Arezzo con amici, ho alzato il volume, così, un po’ per caso, forse per sentire meglio quello che diceva il testo, forse perché semplicemente avevo un po’ di sonno, e alla fine mi si è aperto l’abisso: profondissimo, oscuro, affascinante, e il grido finale di Thom Yorke era anche il mio grido.
Avete mai avuto paura, ascoltando una canzone? Io sì, a tarda notte, tornando a casa da una serata con amici.
No surprises La melodía di una ninna nanna. Il testo di una band di rivoluzionari. Il videoclip più disturbante di sempre. Almeno due strofe da consegnare alla storia della musica. Se nella loro carriera avessero scritto solo questo pezzo, per un’altra band sarebbe stato più che sufficiente. E invece, non è neanche la canzone più bella dell’album. Solo la più inquietante.
With no alarms and no surprises, please.
Lucky C’è per tutti, la canzone che potreste ascoltare 780 volte consecutive senza mai stancarvi. Un mio amico del mare, per dire, mi aveva raccontato di aver fatto una cassetta da 46 minuti in cui c’era solo “I want it all” dei Queen. Ecco, per me questo pezzo è Lucky. Credo in effetti di averlo ascoltato per almeno 46 minuti consecutivi (anzi, sicuramente anche di più), cogliendone ogni volta una sfumatura diversa. Mi piace tutto, di questa canzone: l’attacco, il cantato nelle strofe, il ritornello, gli assoli di chitarra, il finale. Tutto. Se dovessi scegliere di poter ascoltare solo una canzone dei Radiohead per il resto dei miei giorni, non potrebbe che essere questa.
We are standing on the edge.
The tourist Ammetto di essermi chiesto un tot di volte come mai il disco non si fosse chiuso con Exit Music come ultima traccia – in fondo era perfetta già dal titolo. Ma alla fine del salmo, giusto quei 25 anni dopo, mi sono fatto una ragione di questa scelta. E l’ho capita, tutto sommato. Quell’ “Hey uomo, rallenta”, il finale dove gli strumenti tacciono uno alla volta… Il messaggio – potente e chiaro come in tutti gli altri pezzi – è questo: corriamo troppo. Non abbiamo tempo e modo di apprezzare appieno niente di quello che abbiamo intorno. Alla fine, un modo giusto, sincero e schietto di chiudere un disco che dura poco meno di un’ora ma che richiede tutta l’attenzione dell’ascoltatore, dalla prima all’ultima nota. Orecchie spalancate, cervello in funzione, cuore aperto. Chissà se oggi sarebbe possibile, consegnare ad un etichetta discografica un album del genere. Chissà, magari sì, in fondo c’è già un precedente: questo. O magari no, ché non ci sarà mai un altro OK Computer.
Sono passati 25 anni. Questo disco è ancora uno scrigno di tesori. Che bello averlo potuto vivere per così tanto tempo.
Lo so, sembra strano anche a me, ma evidentemente io e Michele Borgogni, amico e autore indie (aiuto: non so se gli piace farsi chiamare così… vabbè, ormai è andata!) in coppia in qualche modo funzioniamo, visto che ancora una volta ci siamo trovati a presentare un suo libro, stavolta in un luogo molto caro a entrambi, il Circolo Aurora di Piazza Sant’Agostino ad Arezzo. L’occasione, stavolta, era la sua nuova raccolta di racconti, intitolata “Anche i mostri si innamorano” e pubblicata dalla Dark Abyss Edizioni con una copertina abbastanza inquietante, e quindi in linea coi testi contenuti nel libro stesso. La serata è stata piacevole, come sempre per me quando c’è da chiacchierare di libri in buona compagnia, e mi ha finalmente disvelato uno dei Segreti dell’Esistenza: il Liquore Strega è buono per davvero! Ma torniamo a noi: parlare di libri con un autore è sempre, per mille motivi che sarebbe qui inutile eviscerare od elencare, una cosa difficile, tranne quando l’autore non te la rende facile. Con Michele, fortunatamente, questo è il caso. Le chiacchierate libresche con lui riescono bene e piacevolmente, non vedo l’ora di farne altre!
Qui è dove Michele mi stava spiegando che alle presentazioni sarebbe più professionale bere solo acqua.(Foto di Francesco Alpini)
Come dite? Non ho detto nulla del libro? Ah, è vero. La sinossi, prima di tutto: frugando nella letteratura, nella mitologia, nella cinematografia, Michele Borgogni saccheggia il mondo dei mostri e ce li offre in undici racconti che provengono da ogni parte del mondo e da ogni tempo. Da Godzilla a Bigfoot, passando fra gli zombie e la terribile lamia, dal Giappone all’antica Grecia, l’autore colleziona undici storie, unite dal filo sottile dell’ironia. Divertente, originale, irriverente e, a volte, blasfemo, questa antologia racchiude una carrellata di mostri come non si sono mai visti, né letti.
Diciamocelo: di tanto in tanto, piace a tutti leggersi un po’ di sana narrativa horror. O almeno, a me piace. Ma le letture fatte in questo libro non sono dei “semplici” horror, per quanto gli strizzino l’occhio continuamente. È una letteratura più contaminata, ricca di citazioni, ironica e autoironica. Leggetelo, e che voi siate mostri o meno, vi innamorerete.
Ah, e se dopo averlo letto vi fosse venuta voglia di leggere qualcos’altro di suo, qua c’è una nostra chiacchierata attorno ad un suo libro.
Arrivi e partenze. Non è fatta così, la vita di tutti noi? Era il 30 ottobre del 2015, dopo un tot di anni di scrittura sportiva più o meno locale e più o meno autoprodotta. Mi sono proposto a Crampi Sportivi su suggerimento di una persona che conosceva me e conosceva loro. Ero nel bel mezzo di un momento personale piuttosto complicato, e vedere il mio pezzo andare online mi riempì di orgoglio e soddisfazione, per cui a questa persona ancora oggi sono grato. Da Crampi sono arrivate altre collaborazioni, più altisonanti ma per le quali non riesco ad utilizzare l’aggettivo “importanti”, anche se indubbiamente gli ho dedicato tempo, energie e ne ho avuto in cambio tante soddisfazioni. Non posso e non voglio dimenticarmi che tutto il mio percorso di scrittura sportiva di questi ultimi sei anni è partito da qui, da Crampi Sportivi, che è un po’ come me: ha avuto le sue vicissitudini, ma è sempre in piedi, ed è per questo che “Underdog”, di cui ho avuto l’onore di scrivere un capitolo, è in un certo senso un punto di arrivo. Ma qui mi vengono ancora una volta in soccorso i miei ascolti musicali: “ogni stop è solo un altro start, la vita non si ferma, the future”. Vedere questo libro (grazie, Battaglia Edizioni, dal vivo è magnifico!), toccarlo con mano, leggere il mio nome stampato lì sopra, insieme ai nomi di altre persone che mi onoro di poter chiamare amici e compagni di viaggio ancora prima che colleghi di scrittura, mi riconcilia, ancora una volta, con giorni complessi e intensi. La scrittura, come la lettura, a volte può perfino salvarti. Lunga vita, Crampi. Io ci sarò, da domani ancora più di oggi.
Io vorrei che tutti leggessero “Non tutto il male” di Andrea Cassini, edito da Effequ, perché sento il bisogno di confrontarmi con altri su questo libro. Vorrei che lo leggessero tutti perché io un libro come questo mi sa che non l’ho mai letto, ma non so se sia il libro o se sono io, come lettore, ad avere orizzonti limitati. Vorrei che lo leggesse qualcuno che non conosce l’autore, che non ci ha mai parlato, che non ci ha mai avuto a che fare, che non ha mai letto nulla di suo (come avete fatto?). Vorrei che chi lo ha letto mi scrivesse e mi dicesse che ne pensa di Zero, del Cartografo, della ragazza in bianco e della ragazza in nero, se anche secondo lui i fantasmi sono simili agli stand di JoJo, se ha capito chi era il cantante che si esibisce nelle gallerie della metropolitana, se è riuscito a farsi un’idea di che fine farà la città costruita sull’albero. Vorrei che chi lo ha letto mi dicesse che sì, è vero quello che sto per dirvi, e cioè che è un libro che nel bene o nel male non lascia indifferenti, che scava dentro, che parla di un mondo fantastico eppure così simile al nostro presente da lasciarci così, a pensare se è così che sta andando, che andrà, se davvero non riusciremo ad evitare che
Sopra un enorme albero è edificata una città. Ora l’albero è malato, per guarirlo è stato dato alle fiamme dal governo, che alimenta superstizioni e incoraggia sacrifici umani. La città vive al centro di un perenne incendio, e per le strade sono comparsi dei fantasmi: ciascuno si lega a un essere umano, assumendo la forma dei suoi traumi e sentimenti repressi. Più l’albero brucia per guarire, più la disperazione si propaga in città. Solo Zero non ha un fantasma ad accompagnarlo. Lui, che gestisce un redditizio forum online per i sempre più numerosi aspiranti suicidi, attraverso il suo lavoro scoprirà qualcosa che lega i fantasmi alla città e alle fiamme, e ricostruendo gli enigmi che compaiono nei suoi sogni si andrà immergendo, per volontà o per forza, in una missione che cela il significato di tutta la propria esistenza. In una straordinaria metafora del rapporto malato tra uomo e natura, Non tutto il male ondeggia tra incubo e sogno, realtà e menzogna, per condurci al centro dell’epoca che stiamo attraverso una storia fantastica.
Arrivare a cento numeri è un traguardo importante che va celebrato a dovere. Sono a bordo di Casentino Più sin dai primissimi numeri, e insieme abbiamo fatto un bel pezzetto di strada. Esce oggi il numero 100, ci sarà un mio racconto inedito, intitolato “quattro schiacciate camaldolesi”. Prendetelo, leggetelo (leggetevi anche il resto, eh!) e fatemi sapere.
Dopo quasi un anno di assenza, e dopo aver clamorosamente sbagliato il pronostico su Antonio Conte all’Inter, sono tornato a scrivere per I Blog del Fatto Quotidiano. Stavolta di un evento sportivo concluso. Mi trovate qui.
A giudicare dai messaggi, pubblici e privati, ricevuti dopo questo post, posso tranquillamente dire che è stato il pesce d’Aprile meglio riuscito della mia vita.