Macerie Prime – volume 1

Sì, ho preso questa copertina qua.

Io lo sapevo.  Non avrei dovuto prenderlo il primo giorno. Perché ora mi tocca aspettare SEI MESI, SEI DANNATISSIMI MESI per leggere il seguito.  Eppure non ho resistito. Comprato il giorno dell’uscita, letto la sera stessa, metabolizzato in una notte.
Non è facile spiegarvi perché mi piace Zerocalcare, e questo c’entra solo fino a un certo punto con il fatto che siate o non siate lettori abituali di fumetti.  Ci provo, comunque:  perché Zerocalcare ha il rarissimo pregio di saper trattare con leggerezza – ma non troppa – una serie di temi che riguardano un numero di persone più grande di quello che probabilmente lui stesso potrebbe pensare. Cito testualmente per la prima volta (di due) quello che dice Zero nella presentazione che fa nel suo blog: “Non è un manifesto generazionale né una dichiarazione di intenti, peraltro essendo un libro in due parti se uno non è completamente scemo si può immaginare che alcune delle cose fissate in questo primo atto possono essere rovesciate nel secondo.” Eppure, leggendolo, ho ritrovato diversi pensieri, sensazioni, situazioni, stati d’animo che sono, sono stati, saranno anche miei.  Ovvio, i protagonisti sono di Roma mentre io ho sempre vissuto nei sobborghi di Arezzo, e quindi certe cose devo magari un po’ immaginarmele (questo per dire che capisco come mai Zero rifiuti l’etichetta di “manifesto generazionale” che è una cosa grossa e che dovrebbe trascendere anche certi riferimenti culturali e storici che invece, nel libro, tracciano una linea tra chi sta “di qua” e chi sta “di là”), ma la potenza di quello che dice, e mostra, questo libro è indubbia:

Per dire, una delle cose che maggiormente mi hanno segnato, in questo libro, è il restare fedeli a sé stessi, alle proprie idee e ai propri principi.  Che è una cosa difficile, come deglutire con una serie di chiodi infilati in gola.  Ed ecco, tutta la potenza del media fumetto. Non riesco ad immaginare la stessa espressione di un concetto come quello rappresentato nella vignetta qui sopra, per efficacia e sintesi, in nessun altro modo.

Oh insomma, lo so che vi sta scendendo l’attenzione.

Quindi non ve la faccio lunga, e vi spiego perché il secondo volume esce tra sei mesi, prendendo di nuovo a prestito le parole di Zerocalcare: “È un libro in due parti, perché sennò veniva un malloppo illeggibile di 400 pagine, e invece la seconda parte esce tra sei mesi, che sono pure i sei mesi che passano all’interno della storia tra il primo e il secondo atto, così uno si vive le cose in tempo più o meno reale.” E allora ok, ho fatto bene a comprarlo il giorno stesso dell’uscita, e a leggerlo subito: cercherò di non rileggerlo, anzi, fino all’uscita della seconda parte. Magari avrò la stessa sensazione di ricordarmi di ciò di cui stavamo parlando ma NON TROPPO nel dettaglio, così come i ricordi a volte dopo sei mesi sfumano un po’ nei dettagli.  Una mossa “filologicamente corretta”, alla fine. Mancano solo sei mesi all’uscita del secondo volume. Non vedo l’ora.
“Sì, ma il libro di che parla?” Guardate qua, così ve lo spiegano bene, potete dare un’occhiata alle prime pagine, comprarvelo.

Zerocalcare – Kobane calling.

Uno, o “doveroso preambolo”.
Appena finito di leggere Kobane Calling ho sentito il bisogno di scriverci qualcosa su. Ma non la solita recensione barbosa tipo “l’autore cita nel suo lavoro l’opera di Tizio” oppure “le anatomie tracciate da Zerocalcare ricordano quelle di Caio, e la disposizione delle vignette ha molto in comune con quella di Sempronio”. Un po’ perché non sono capace di scrivere le recensioni, altrimenti magari nella vita farei quello, e invece faccio una cosa tutta diversa. Un po’ perché le recensioni del genere gne gne gne, dove si trovano mille riferimenti incrociati, quattrocento livelli di lettura e via elencando, le ho sempre trovate fastidiose, perché risulta che alla fine il recensore è più interessato a fare sfoggio della propria cultura che non a parlare del libro (o disco, o film o che so io) di cui teoricamente starebbe scrivendo la recensione.

Due, o “svolgimento”.
Non posso chiamare questo scritto “recensione”, perché in realtà posso sintetizzare tutto quello che ho da dire su Kobane Calling in una parola, e questa parola è grazie. Quindi capite bene che non riuscirei a fare un pezzo gne gne gne, neanche in parte. E a dirvela tutta, neanche mi va.
Quello che mi sento di scrivere, casomai, è un tentativo di spiegare meglio perché ho detto “grazie”, che poi potrebbe essere anche “grazie, Zerocalcare” o meglio ancora “grazie, Michele”. Ed il motivo è estremamente semplice, quindi mi verrà fuori una cosa contorta e male articolata.
Grazie, perché Kobane Calling è un libro che riesce a trattare con chiarezza, onestà intellettuale e quel tanto che basta di ironia un tema forte, di quelli così forti che la nostra società, in generale, preferisce non vedere, per non essere costretta ad avere un’opinione in merito.
Grazie, perché Kobane Calling è un volume che ho visto in mano a un sacco di gente che abitualmente non legge fumetti, e che magari dopo aver letto questo ci sta che se ne legga pure qualche altro, e si faccia un’idea un po’ diversa sul fumetto in generale.
Grazie, perché Kobane Calling è una lettura piacevole, scorrevole, intensa, e soprattutto emozionante. Non capita molto spesso, nel corso di una stessa lettura, di poter ridere e commuoversi. Così a spanne – tanto per contraddirmi e fare qualche riferimento culturale anch’io – direi che mi è capitato con “Molto forte, incredibilmente vicino” di Jonathan Safran Foer, con “La schiuma dei giorni” di Boris Vian, con “La vita è bella” di Roberto Benigni. Che non è un libro, ma va bè, non siate pedanti.
Io quando ho letto Kobane Calling mi sono sentito, paragonandomi a Michele Rech in arte Zerocalcare, come la rana dei Muppets, e se questa cosa non l’avete capita, beh, è ovvio che non avete letto il libro e dovete recuperare al più presto. Non per la rana dei Muppets, ma per tutte le cose che ci sono dentro, a questo libro.  Dalla necessità di restare umani, al ricordare sempre e comunque che bisogna fare lo sforzo di guardare le cose con gli occhi dell’altro, all’avere comunque, qualsiasi cosa, situazione, momento si stia affrontando nella propria vita, un po’ di leggerezza. Perché il messaggio che questo libro mi ha passato, oltre a quello – ovvio ma mai scontato – che non bisogna mai voltarsi dall’altra parte perché nel mondo le cose succedono comunque, è questo:  ci sono cose, intorno a noi, che per un motivo o per un altro incrociano le nostre strade, e che ci coinvolgono, e per non farsi tirare sotto dobbiamo avere la forza di rimanere leggeri, almeno in parte. Non c’entra magari niente con l’intento del fumetto, ma il messaggio è comunque passato forte e chiaro. Personalmente, ne avevo anche un gran bisogno.

Questa è la dedica che possiamo trovare sfogliando la mia copia di "Kobane Calling".

Questa è la dedica che possiamo trovare sfogliando la mia copia di “Kobane Calling”.

Tre, o “la stai facendo troppo lunga”.
Si, la sto facendo troppo lunga, ma se siete ancora qua magari avete capito che non sto facendo un discorso lineare su Kobane Calling, altrimenti avrei fatto una recensione (vedi al punto uno), invece di fare uno scritto disordinato, ma anche catartico. Si, perché Kobane Calling ha un altro enorme pregio, e cioè che ti spinge (o almeno, a me ha fatto questo effetto) a interrogarti su quanto tu stia effettivamente facendo per rendere questo mondo un posto appena appena migliore. Sì, faccio la differenziata e separo la carta dalla plastica. Sì, il mio 5 per 1000 va a Emergency. Si, faccio servizio in una mensa per senzatetto, una volta al mese, di domenica. Ma sono tutti palliativi, che a malapena abbassano il volume di quella vocina insistente che suona come la famosa canzone di Tozzi Morandi & Ruggeri che non citerò, tanto avete capito tutti.  Kobane Calling non è Maus, o Mattatoio n. 5 (scusate, ho fatto di nuovo un riferimento incrociato, ma è il penultimo, giuro).  Non è cioè una riflessione amara su un qualcosa che è successo ed è bene non dimenticare. Si tratta piuttosto di un manifesto della speranza, della constatazione fatta in presa diretta che tutto quello che le persone dotate di un minimo di coscienza in cuor loro si augurano:  che esista, cioè, un modo (o un mondo) di far convivere culture, religioni, tradizioni diverse tra loro. E che, incidentalmente, questo mondo sia appena fuori dalle porte di quell’Europa che da un lato ha abbattuto le frontiere ma dall’altro è talmente preoccupata dell’onda araba da alzare muri sempre più alti e robusti.
E quindi sono arrivato fino a qua senza dire una cosa, che però è scritta molto bene nel libro, e cioè che Kobane è il simbolo, in questo 2016, della resistenza contro l’avanzata dell’oscurantismo, con una distinzione significativa rispetto magari agli oscurantismi passati: non si tratta più di attacco frontale, quanto piuttosto di accerchiamento.  Kobane ha resistito all’assedio dell’ISIS, come seppe fare Parma nel bellissimo “Oltretorrente” di Pino Cacucci (e qui la chiudiamo coi riferimenti incrociati), citato indirettamente da Zerocalcare nel libro per aver ispirato la canzone “L’oltretorrente” degli Atarassia Grop. Adesso però c’è da sventare un altro attacco, più subdolo perché non frontale:  quello di chi crede e vuol far credere che con l’Islam non sarà mai possibile nessuna forma di dialogo. La risposta, per fortuna, ce la stanno dando i fatti che avvengono a Kobane, per cui – grazie, Michele, per l’ultima volta – il punto non è se il dialogo con l’Islam sia o non sia possibile, quanto piuttosto se vogliamo o non vogliamo voltarci a guardare dalla parte giusta.

Quattro. Titoli di coda, citazione di citazione.
Se anche stanotte durasse cent’anni
staremo svegli abbracciandoci al buio,
il nemico è alle porte della nostra città.
Se anche stanotte durasse cent’anni
staremo in piedi abbracciati ad un sogno
che ha una scritta sul volto: “Da qui non si passerà!”.

Cinque, o Post Scriptum doveroso e obbligatorio.
Zerocalcare ha presentato il volume Kobane Calling al Karemaski di Arezzo, venerdì scorso, davanti a un centinaio di ragazzi, facendo disegni e dediche per due ore abbondanti prima di parlare della sua esperienza nei viaggi in Rojava.

PRESFate conto che uno dei più vecchi in sala ero io, che ancora ho da fare un po’ di strada per arrivare ai quaranta.  Ragazzi attenti, partecipi, interessati, contrariamente a quanto si usa stereotipare sui giovani d’oggi.  Il giorno dopo, non una riga sui quotidiani, non un pezzo sui siti di informazione locale, non mi risulta neanche uno straccio di servizio alla TV. Come si usa dire oggi: bene ma non benissimo, ecco.

(EDIT del 31/05, piccolo ma doveroso). Oggi “La Nazione” di Arezzo ha pubblicato un pezzo sulla serata, a firma del mio amico Diego D’Ippolito. Compratevela, io l’ho fatto.

TITOLO-31-05