E niente, stavo pensando che la maggior parte di voi ha letto la prima parte di questo racconto (pubblicata sul numero 5 de “Il Leggio”, lo trovate in pdf QUI) ma non la seconda. Quindi ho pensato di riproporvelo in versione integrale. In BLU trovate la parte già pubblicata, in ROSSO quella inedita.
Il Più Lungo Giorno
Caro Signor Papini,
sono ancora una volta a chiedervi la restituzione del manoscritto da me consegnatovi in presenza del Soffici presso il tipografo Vallecchi. Non avendo ricevuto risposta alle mie precedenti missive, mi trovo costretto a ricordarVi quanto per me detto manoscritto sia importante. Qualora la Sua persona non giudicasse necessario reperire e restituirmi quanto di mia proprietà, sarà mia cura scendere a Firenze con un acuminato coltello e risolvere detta questione da uomini.
Cordialmente, vi saluto.
Campana Dino
Giovanni Papini lesse e rilesse più volte la lettera: non sembrava proprio trattarsi di uno scherzo. Quella carta gialla e grossa, quella calligrafia nervosa che aveva già visto altre volte, erano proprio le sue, di Dino Campana. Restava da stabilire quanto facesse sul serio con queste minacce, e se avesse capito qualcosa di quanto stava succedendo laggiù, a Firenze, lontano dal borgo di Marradi da dove il poeta pazzo proveniva.
Ma Dino non era un villico di cui ci si poteva prendere gioco facilmente, Dino aveva viaggiato in lungo e in largo per l’Italia e per il mondo, era stato persino due anni in Sud America. Il problema, con quel soggetto, era la sua totale e completa imprevedibilità. Mentre si versava un bicchiere di cordiale nel suo soggiorno, Papini si decise: quella sera stessa sarebbe andato da Ardengo, si sarebbe fatto ricevere da lui e gli avrebbe parlato della questione. Dovevano decidere insieme quello che fare, perché insieme si erano ritrovati all’inizio di questa ingarbugliata vicenda, e insieme, che diamine, ne sarebbero usciti!
Il calesse si fermò al cancello della casa padronale dei Soffici, a Poggio a Caiano. Giovanni Papini percorse il viale a piedi e bussò al portone di casa: nessuna risposta. Decise di attendere un poco, prima di bussare una seconda volta, poi una terza. Ancora niente, tutto taceva. Eppure c’erano luci che provenivano dall’interno della casa. Che Dino Campana avesse già messo in atto i suoi propositi?
“Giovanni! Mio buon amico! Cosa ti porta da queste parti così, senza preavviso? Perdona il ritardo nel venirti ad aprire, ma ero indaffarato con un quadro e non riesco proprio a venire a capo di un colore… ma che ti succede? Sembra che tu abbia visto un fantasma!”
“No, Ardengo, nessun fantasma, è che credevo che Campana… ah, lascia perdere! Fammi entrare e ti spiegherò meglio perché ti sembro tanto turbato.”
“Ma certo! Non amo i misteri, lo sai bene, quindi prima avrò una spiegazione per tutta questa tua agitazione, e meglio sarà!”
I due si recarono nello studio del Soffici, e stavano seduti in silenzio, pensando ognuno per conto proprio a quanto Papini aveva detto poco prima. Ardengo Soffici, arrampicato su uno sgabello, contemplava il quadro a cui stava lavorando con aria perplessa., ma il suo sguardo andava oltre la tela, sembrava perdersi oltre l’orizzonte dei colli fiorentini. Giovanni Papini, semisdraiato su un sofà, si tormentava le mani, leggermente meno agitato di prima ma comunque coi nervi a fior di pelle. Fu lui a prendere la parola per primo, dopo i pochi minuti che erano serviti a entrambi per riordinare i pensieri.
“Secondo me è tutta una coincidenza colossale! Diciamocelo francamente, quel Campana è uno spostato, non è del tutto sano di mente. A quanto ho saputo, entra ed esce in continuazione dai manicomi: non può essere venuto a conoscenza di una cosa così grande, è un sempliciotto che proviene da un villaggio di contadini!”
“A me le coincidenze non piacciono” – gli rispose Soffici – “anzi, se devo dirti la mia, non credo che esistano. Il suo interesse a riavere quel manoscritto ha qualcosa di più profondo di una semplice gelosia per le proprie cose, secondo me. Non chiedermi come sia riuscito a scrivere le cose che ha scritto in quei fogli, ma il fatto è che dobbiamo fare in modo che nessuno lo prenda mai sul serio!”
A Marradi, intanto, c’era nell’aria il profumo delle bruciate. Dino Campana parlava con tutti di quei due fiorentini che lo avevano raggirato. Ne parlava col prete, col dottore, con l’ufficiale della posta, col farmacista, e a tutti ripeteva la stessa tiritera: “Te lo dico io, te lo dico. Quei due cialtroni di Soffici e Papini per ora non mi rispondono. Tra un po’ faranno finta di aver perso il mio manoscritto, e mi risponderanno che purtroppo non se n’è potuto fare di nulla perché il testo non si ritrova, e quanto gli dispiace e via e via. Ma la realtà, caro mio, è un’altra! Loro non mi vogliono pubblicare perché sono INVIDIOSI! Sanno benissimo che il libro è buono, magari non perfetto, ma buono abbastanza da essere pubblicato. Così, per paura che si parli un poco anche di Dino Carlo Giuseppe Campana da Marradi, e un po’ meno di Ardengo Soffici e del suo degno compare Giovanni Papini, mandano tutto a monte. Ma lo stupido sono stato io, ad avergli consegnato l’unica copia che avevo del testo intero! E tanto troverò lo stesso il modo di fregarli, perché ho buona memoria, io, altro che testa matta! Ora aspetto ancora un po’ e poi tu vedrai: se mi piglia la voglia, scendo a Firenze e mi faccio ridare il taccuino, con le buone o con le cattive. Altrimenti mi metto da una parte e lo riscrivo, che magari mi potrebbe anche venire meglio! Poi lo fo stampare, ne porto un bel po’ di copie a Firenze e mi metto a venderle. O voglio vedere le facce che fanno, quei due! Voglio proprio vedere!”
La gente del paese, però, lo considerava più che altro uno svitato, uno che non aveva tutte le rotelle al posto giusto, uno che era un po’ “come la su’mamma”, insomma.
Ma faceva anche un po’ simpatia, Dino, a Marradi, e questo suo sogno di diventare uno scrittore aveva un che di contagioso, così come era bello e coinvolgente sentirlo raccontare dei suoi viaggi in giro per l’Italia e per il mondo, per loro gente d’Appennino che non aveva mai lasciato la montagna. Era bello passare le serate con lui, a farsi raccontare, con quel suo tono enfatico e sognante, dei suoi viaggi, veri o inventati poco importava. Di quando era stato da Firenze alla Verna a piedi, oppure del Sudamerica, a seconda di come gli andava nel momento. Così alla fine l’aveva trovata, un po’ di gente disponibile a dargli una mano, e cinque lire qua, e due là, era riuscito, grazie all’aiuto dei marradesi, a raccogliere un po’ di soldi per potersi presentare dal Bruno Ravagli, che di Marradi era il tipografo, a farsi stampare un po’ di copie de “il più lungo giorno”, quell’opera che era insieme poesia e diario di viaggio, fantasie e autobiografie. Ma con qualche accorgimento, rispetto al manoscritto autografo consegnato ai due cialtroni, per far vedere che lui, Dino Campana da Marradi, non era il tipo da farsi mettere nel sacco da quei due signorotti di città, buoni solo per dirsi a vicenda quant’eran bravi.
Il titolo, innanzitutto, ché cambiando quello si sarebbe da subito potuto capire se la precedente stesura se l’eran letta o meno. Così Dino pensò alla prima cosa che gli veniva in mente, un titolo talmente aulico da voler risultare antipatico a tutti quei letterati fiorentini. “Canti Orfici”, così, per far capire che anche a Marradi si sapeva qualcosa di letteratura classica, e non c’era bisogno di esser nati lì per avere un po’ d’arte dentro. Poi, all’interno, un paio di dediche – celate ma non troppo – per quei due, così che se il libro gli fosse passato in mano anche solo per caso, o mentre Dino era al culmine del successo, se non erano proprio delle teste di legno, avrebbero capito che si rivolgeva a loro. La prima, nel sottotitolo, Die Tragödie des letzen Germanen in Italien, la tragedia dell’ultimo germanico in Italia, per far capire a lorsignori come la sua arte fosse passata ingiustamente, anzi, tragicamente, inosservata, come se non lo ritenessero neppure degno di esser considerato dalla scena fiorentina, la culla dell’italiano che lo rigettava come straniero. La seconda, nell’ultima pagina, con una frase presa da Walt Whitman e modificata all’uopo. L’originale diceva The three were all torn and cover’d with the boy’s blood, i tre erano laceri e coperti col sangue del ragazzo, ma poiché loro non erano three ma piuttosto two, la frase Dino la fa diventare They were all torn and cover’d with the boy’s blood. O vediamo, che se mi fanno girare le scatole ci penso io, il coltello di cui gli scrissi ce l’ho ancora, che si credono?
A Firenze, nel frattempo, due insolitamente timidi Ardengo Soffici e Giovanni Papini erano nella sala d’attesa della caserma dei carabinieri, chiedendo in modo vago e assai confuso di venir messi in contatto con quello dei Servizi Segreti, ma si, quello che per copertura fa il pasticcere in via Ghibellina, e che da soli non ci son potuti andare perché oggi è giorno di chiusura, signore, e noi non si sa dove stia di casa quel signore lì. I militi dell’arma, indecisi se chiamare il pasticcere in questione, il manicomio o fare un viaggio a Sollicciano per far passare a questi due la voglia di fare gli spiritosi, nel pieno della propria solerzia optarono per un salomonico calcio nelle terga dei due, che cominciavano a pensare di starsi trovando in un incubo, tanto la situazione assumeva contorni disperati.
Eppure la lettera recapitata alla redazione di Lacerba, la rivista da loro diretta, parlava chiaro, con tanto di bollo in calce:
Individuato pericoloso sovversivo tra i poeti italiani, uomo avvezzo a lunghi spostamenti e con abitudini bizzarre. Ogni manoscritto inedito che dovesse giungere presso la Vostra rivista dovrà essere posto al vaglio preventivo dei Servizi Segreti, perché potrebbe contenere messaggi in codice cifrato, utili a fornire al nemico informazioni circa le nostre Forze Armate. Per qualsiasi dubbio, prendete una fetta di torta della nonna dal pasticcere di Via Ghibellina, sarete ricevuti con la massima solerzia. La patria, sentitamente, ringrazia.
Non poteva trattarsi di un falso: il bollo in ceralacca era davvero stato posto con un timbro del Regno d’Italia.
C’era solo una soluzione: il manoscritto de Il più lungo giorno doveva sparire, o starsene ben nascosto per un po’. E per nessuna ragione al mondo sarebbe dovuto finire nelle mani di un editore: i messaggi in codice in esso contenuti erano a volte talmente evidenti da risultar chiari anche a loro due, letterati e votati all’azione, seppur non pratici di guerre e spionaggi vari ed eventuali! Farlo stampare avrebbe significato certamente fare in modo che il nemico si facesse recapitare tutte le informazioni di cui aveva bisogno per prevalere sulla nostra povera patria, per di più in un formato insospettabile, com’è quello di un libro!
Doveva essere così per forza: Soffici e Papini erano giunti entrambi alla medesima conclusione: dietro quell’aria da mezzo matto, quasi da poeta maledetto, di Campana, si celava un’abile spia al soldo degli eserciti nemici. O cosa c’entravano, altrimenti, tutte quelle descrizioni di Faenza, di Bologna, di Firenze e dei boschi dell’alto Casentino, in un libro di poesie? Lo scopo era chiaro: dare al nemico preziose indicazioni sulla geografia dei luoghi, sulle fortificazioni delle città, e magari infilare anche qualche messaggio in codice che un infiltrato in Italia avrebbe potuto capire. Si, ne erano convinti. Dino Campana era un traditore della Patria, che nei suoi viaggi per il mondo aveva preso contatti con potenze straniere e adesso era tornato in Italia per riferire a loro delle sue indagini. Del resto, chi avrebbe badato alle bislacche domande, agli strambi modi di fare, di un soggetto del genere?
(Per sapere come va a finire, trovate il resto su “Come una mano che saluta da un treno”, Edizioni Helicon, 2017)