Questo racconto ha partecipato – con scarsa fortuna, ma me lo aspettavo, non essendo certo io uno “scafato” del genere fantascientifico – al concorso “70 ore nel futuro” organizzato dall’associazione culturale Karemaski Multi Art Lab.
L’incipit, previsto dal bando e riportato in corsivo nel racconto, è di Nicoletta Vallorani, una che di sicuro la sa più lunga di me. Mi farebbe piacere un vostro parere in merito. 🙂
Il crepuscolo colora il cielo di piombo. Non piace ai piccioni, che si assiepano fuori dal vetro sporco, fantasmi rugosi di una Milano che non c’è più. Hanno perso le piume dopo l’ultimo uragano nucleare. Non sono morti. Non siamo morti noi. Decimati, questo sì. Ma non morti. Lo avremmo meritato, credo. Ma non è su questa base che la natura decide: mai stata meritocratica, piccolo. E ricordatelo, perché un giorno ti servirà.
Mi guardo allo specchio. Riprendo il lavoro. I capelli cadono come neve color sangue. Il lavandino ne è colmo. Rossa bambagia che segna il tempo che ho avuto per me, e la sua fine. La passione è terminata, piccolo. Troverai un’altra donna quando verrai al mondo.
Una contrazione mi serra i muscoli, il rasoio scivola, disegnando un’onda nella mia strana acconciatura a metà. Mi piego, aspetto, torno ad alzarmi. Spingo via un pensiero molesto, un volto che forse ho amato, ma che già sfuma tra i ricordi che non voglio avere. Cancello il dolore con cura meticolosa.
Un colpo.
Due.
Tre.
Getto via la spugna.
Riprendo il lavoro col rasoio.
Tagliare i capelli. Scoprire la pelle.
Stai fermo ancora un minuto. Dammi il tempo di completare quel che ho iniziato, con la mia testa e il mio corpo.
Lo specchio mi restituisce i miei occhi stanchi, piccole luci azzurrate in questa giornata che si spegne.
Io sono questa.
Olivia.
…
Se solo non avessi questo mal di testa, continuo, che mi restituisce sensazioni offuscate e percezioni distorte. Forse è l’aria densa, forse la mia continua paura di essere trovata. Forse mi sto solo immaginando tutto. Chi può dirlo con certezza?
Quello che posso dire con certezza è che sono inseguita. Stanno cercando di catturarmi, e in più di un’occasione ci sono anche andati vicini. Chi sono? Perché lo fanno? È difficile dirlo. Sono successe tante cose, dopo lo sgancio della bomba. Molte di più ne erano successe nei giorni precedenti, a ben guardare. Gli arresti degli oppositori politici, le distorsioni dell’informazione. Storie che ciclicamente si ripetono, a dimostrazione ulteriore che l’unica specie animale, in tutto il creato, a non imparare dai propri errori è sempre e comunque l’uomo.
Poi i due giorni di apocalisse. E diventa residuo, diciamo pure inutile, dire chi ha cominciato, o perché, o cosa si sarebbe potuto fare. In due giorni, una guerra ha squarciato l’intero pianeta, lasciando sul campo tanti di quei morti che nessuno si è posto il problema di seppellirli. Era un lavoro semplicemente titanico, troppo arduo e inutilmente lungo. Ancora oggi, nessuno si spiega come mai si siano salvati tutti i bambini di età inferiore ai tre anni. Posso ipotizzare che sia perché il loro corpo è ancora ad uno stadio non troppo avanzato dello sviluppo, e quindi ha saputo “assorbire il colpo” meglio degli altri, degli adulti, dei “grandi”. Se credessi in un Dio, vi direi che è stato semplicemente per fare tabula rasa, perché è stato risparmiato chi non aveva colpe. Ma non credo in nessun Dio, e non ho nessuna spiegazione del perché ciò sia avvenuto.
Non riesco ad essere lineare, raccontandoti tutto. Forse ometterò qualcosa, non so dirti. Nel caso, sappi che non l’ho fatto apposta. È difficile, essere lucidi, in una situazione come la mia. E questo mal di testa, poi.
Bere, si, ho bisogno di bere. Anche se questo significa per forza che sarò meno lucida, meno presente, meno reattiva. Non importa, non più, non al punto in cui sono le cose.
E dire che non sempre è stato così. C’è stato un tempo in cui si poteva ancora passeggiare a braccetto per Milano, e se non erano giornate di calura eccessiva, si poteva persino respirare davvero, si poteva mangiare nei ristoranti coi tavolini all’aperto, si poteva addirittura credere di essersi innamorati. Ma di costruire un futuro insieme quello no, non ci ho mai pensato, non ci ho mai creduto. Lo sapevo già, che il mio destino sarebbe stato questo. Lo sapevo e non te l’ho mai detto. Egoista da parte mia, non è vero? Sicuramente si, però questo era il mio destino, la strada per me segnata.
Scusa un secondo, devo interrompere la registrazione. Torno subito.
Ne ho disarmato uno. Bene. Ora so cosa farò, dopo aver terminato questa mia chiacchierata col registratore vocale. So perfettamente dove dovrò andare, cosa dovrò fare. E se proprio va male, mi basterà contare i colpi. Lascerò l’ultimo per me, e via.
Tu non hai idea, vero? Non hai idea di come ci si senta ad essere quella che ha schiacciato il pulsante, quella che ha sulla propria coscienza qualche miliardo di morti. No che non puoi saperlo. Tu sei una persona pulita, onesta. Io invece sono sempre stata questa. Sono sempre stata una killer dormiente, e si sapeva che la Terza Guerra Mondiale sarebbe durata poco, pochissimo, visto il livello di sofisticazione raggiunto dalle armi. Quindi si decise di fare questo: crescere una persona che fosse appositamente programmata per questo scopo, consapevole di quello che faceva eppure in grado di sopportare il carico di responsabilità che ciò comportava, e poi metterla a vivere nella società normale. Fino a che non fosse arrivata quella chiamata. Quid custodiet ipsos custodes?
Quella era la frase che avrebbe dato il via a tutto. E in quel momento, non ci si poteva permettere il lusso di affidare il compito di dare il via alla nuova guerra-lampo ad una persona che avesse remore o rimorsi di coscienza. E io non ne ho. Sono stata cresciuta bene, senza scrupoli, senza rimorsi né retaggi morali. Così, quando è arrivata la chiamata, la frase in latino, ho premuto il pulsante e la guerra ha avuto inizio. Ho fatto suonare le trombe dell’Apocalisse e non ho avuto esitazioni. Ricordo benissimo dov’ero. Stavo passeggiando in via Torino, ci saremmo dovuti vedere un’ora più tardi in Piazza Duomo. Ero in anticipo, guardavo le vetrine dei negozi. Così, quando è arrivato il momento, ho semplicemente rimesso il cellulare nella borsetta, sono tornata verso casa mia senza avvertire nessuno. Tecnicamente, ti ho dato buca, ma non credo che te ne importi granché, a pensarci oggi.
La Terza Guerra Mondiale è durata due giorni. Uno in meno del previsto, a dire il vero.
(Per sapere come va a finire, trovate il resto su “Come una mano che saluta da un treno”, Edizioni Helicon, 2017)