Better Go Soul

Tra le cose più belle in cui io mi sia imbattuto in questi ultimi anni, indubbiamente c’è il podcast “Better Go Soul”, podcast periodico di cultura afro-americana a base di basket NBA formato storytelling, musica soul, hiphop, jazz e funk direttamente dai solchi dei vinili originali, a cura di una delle firme cestistiche che amo maggiormente leggere (e ascoltare), quella di Luca Mich. Tra il 2020 e il 2021, gli appuntamenti con i nuovi episodi sono stati un crescendo di poesia cestistica e musicale – poi, come capita a tutti, anche per le cose belle il tempo scarseggia. Così, quando subito prima di Natale è uscito, a sorpresa, un nuovo episodio, potete immaginare la mia gioia. Lo trovate qui, ma io se fossi in voi andrei a recuperarmi anche tutti i precedenti.

La prima volta ad un concerto.

La prima volta che ho sentito un pezzo di Calcutta, è stato con “Paracetamolo”. Ok, non è nelle mie corde, lasciamo stare. La seconda volta, dopo qualche tempo, quando qualcuno mi ha convinto ad ascoltare “Cosa mi manchi a fare”: decisamente meglio. Ma magari sarebbe rimasto un pezzo di quelli che stanno in un limbo tra le playlist e le riproduzioni casuali, niente di più, se non fosse stato per Ale. Che un giorno ha sentito “non mi importa se non mi ami più, e non mi importa se non mi vuoi bene, dovrò soltanto reimparare a camminare” e ha deciso, lui sì consapevolmente, di mettere questa canzone nelle sue playlist.

Ale non è la persona più semplice con cui stabilire un contatto, quindi un’occasione del genere non potevo lasciarmela sfuggire. “Ale, ti piace?” “Sì, moltissimo. Ascoltiamola di nuovo.” E nelle playlist sono finite anche Del Verde, Limonata, Pesto, Frosinone (su questo pezzo c’è una spin-off story che riguarda Emma, un giorno la racconterò).

Fine maggio 2023, Calcutta pagina di annuncia le nuove date – c’è Firenze, e per giunta di sabato sera! – e il nuovo disco. Il giorno dell’apertura delle prevendite è tipo un click-day: vado in pausa pranzo facendo in modo di poter essere connesso, compro due biglietti ancor prima di chiedergli se vuole venire con me. Glielo chiedo dopo averli presi, il giorno stesso. “Ale, ti andrebbe di venire con me al concerto di Calcutta?” “Si! Mi piacerebbe andare al concerto di Calcu!” (lui ovviamente lo chiama così). “Vai, allora il 2 dicembre ci andiamo!” “Il 2 dicembre? Ma manca tantissimo!”

Nel frattempo, per stemperare l’attesa, esce il disco nuovo. Ale lo ascolta in loop insieme a me. Gli piace. Si impara i testi a memoria, canta perfettamente a tempo.

Arriva il giorno del concerto: prepariamo i panini, partiamo per tempo, camminiamo un po’ verso il Mandela Forum, ci fermiamo a mangiarli su una panchina in un parco minuscolo lungo la strada (“che bello, babbo, stiamo facendo un pic-nic!”), entriamo. Sono le 20:20, il concerto inizierà dopo 50 minuti. Non vuole niente dal bar, c’è troppa fila e comunque non avevano il succo di frutta all’albicocca. Per intrattenerlo un attimo gli chiedo quale canzone gli piacerebbe sentire. Lui non ci pensa un attimo: “Due minuti!”, mi risponde. E io dico “a me piacerebbe ascoltare “Del verde”, invece.

Il concerto inizia alle 21:10. “Due minuti” è la seconda canzone della scaletta, Ale esulta, è felicissimo e il palazzetto canta a squarciagola, l’atmosfera è incredibile, c’era palesemente voglia arretrata di un live di Calcu, come lo chiama Ale. “Del verde” arriva dopo, verso fine concerto, Ale si gira verso di me, mi abbraccia e mi dice “sei contento babbo? Sta cantando la canzone che volevi!” Per fortuna che mi abbraccia con la testa che mi arriva al petto, così non lo vede che mi sono commosso, mentre cantiamo insieme “ti presterò i miei soldi, per venirmi a trovare”. Gli dò un bacio sulla testa, e realizzo una cosa: io pensavo che il primo concerto insieme sarebbe stata una bellissima esperienza per lui (magari lo è stata, lo scopriremo tra qualche anno), ma la realtà è che lo è stata soprattutto per me, cuore aperto e testa sgombra, finalmente, un momento che assomiglia molto da vicino a una felicità perfetta. La musica che ancora una volta funziona come cura e salvezza.

Tornando verso la macchina, Ale, stanco e sorridente, mi fa: “babbo, dovremmo aggiungere la canzone ‘tutta la notte’ alle nostre playlist”.

Eh sì, dobbiamo proprio aggiungerla.

“È stato bravo, Calcutta, vero Ale?”

“Sì, è stato bravo, quando ci torniamo a vederlo?”

Silvia Scipioni, la passione per le due ruote.

(Articolo pubblicato originariamente su Casentino Più nel settembre 2019)

La parabola sportiva della bibbienese Silvia Scipioni è per molti versi un qualcosa di unico nel panorama sportivo non solo locale ma a tutti i livelli. Certo, a volte è successo, e succede tuttora, di leggere di atleti che “scoprono tardi” un determinato sport ma poi riescono comunque ad ottenere ottimi risultati:  è il caso ad esempio di Tim Duncan, universalmente conosciuto come uno dei giocatori più forti nella storia della NBA, che non aveva mai giocato a basket fino ai 14 anni.  Ma è assai meno frequente che un atleta “scopra” uno sport alla soglia dei 30 anni, dopo averne fatto un altro fino ai 20 ed essere rimasto sostanzialmente fermo per dieci anni, almeno a livello agonistico, e riesca ad ottenere risultati così prestigiosi in campo nazionale e internazionale.  Quando parliamo di Silvia Scipioni, infatti, non parliamo “solo” di una ragazza casentinese che a trent’anni ha deciso di provare a fare qualche gara in Mountain Bike, ma parliamo della due volte consecutivamente campionessa italiana ed europea nella categoria Elite della specialità MTB Marathon, una delle due principali categorie in cui si articola il ciclismo in Mountain Bike (l’altra è quella un po’ più famosa, il Cross Country).  Questa storia così “fuori dagli schemi” era troppo bella per non farcela raccontare, così me abbiamo approfittato per fare una chiacchierata con Silvia a tutto tondo. Questo è quello che ci ha detto.

Silvia, innanzitutto raccontaci come e dove è nata la passione per questo sport…

Sono sempre stata una persona molto attiva, avevo 18 anni e facevo parte di una squadra di atletica leggera di Firenze, la mia specialità erano i 400 ostacoli ed ero anche brava, tanto da far parte della nazionale giovanile.  Poi mi sono infortunata, ed una serie di circostanze personali hanno fatto sì che per almeno una decina d’anni io mi sia allontanata dalla pratica sportiva agonistica.  Poi però cinque anni fa, grazie a degli amici, c’è stata questa scoperta del tutto inaspettata della bici, in un primo momento quella da strada.  Pensa che le prime uscite le ho fatte a inizio estate e ad ottobre partecipavo già alla mia prima gara, una gran fondo a Roma.  Poi dalla bici da strada sono passata alla Mountain Bike, e ho capito da subito che avevo trovato lo sport che faceva per me:  pedalare, stare in mezzo alla natura… inizialmente era un modo per scaricare lo stress, e in un certo senso lo è ancora.  Poi si è fatta di nuovo largo la parte di me che ama le competizioni, ed ecco che ho cominciato.

Ma questo tuo avvicinamento che possiamo definire “molto tardivo” a questo sport, visti i risultati ottenuti, non ti fa venire qualche rimpianto per non aver iniziato prima?

Assolutamente sì! C’è da dire che gli sport “minori”, cioè in Italia tutto quello che non è calcio, non sono per niente valorizzati come meriterebbero, quindi magari a me come a tante altre persone non è mai capitato prima di scoprire uno sport perché non se ne conosceva l’esistenza. Tornando a me, se avessi iniziato prima, sicuramente avrei avuto meno titubanze nel passaggio da Elite a Pro, una cosa che mi è stata proposta più volte e che mi porterebbe dei vantaggi (iscrizioni alle gare, poter ricevere premi in denaro eccetera), ma è un passo che non mi decido a fare per via del mio spirito competitivo.  Oggi come oggi, quando partecipo a una gara, magari arrivo prima tra le elite e quarta o quinta assoluta, con tempi che mi permettono di lasciarmi alle spalle diverse atlete “pro” ma non tutte. Ecco, per come sono fatta io, correre per arrivare quarta, o quinta, non fa per me. Se passassi tra i pro vorrei poter competere per vincere, e purtroppo il tempo a mia disposizione per gli allenamenti non mi permette di poter correre a quel livello.

Ecco, questo discorso ci porta a un’altra questione:  quanto pesa la condizione di essere comunque uno sportivo dilettante, sia pur di alto livello?

Devo dire la verità:  finora la squadra di cui faccio parte, la Cicli Taddei, mi ha sempre sostenuta molto sia a livello di spese per partecipare alle gare sia a livello di bici: mi viene fornito tutto in modo che io possa concentrarmi solo sulle gare e non pensare ad altro. Considera anche che io non sono affatto una persona che “si intende” di bici a livello tecnico, non riesco ad appassionarmi a questo aspetto del mio sport. Però ecco, è innegabile che il professionismo, quando si arriva a un certo livello, è una cosa che ti dà dei benefici anche in termini economici. Ma non è certo per soldi che si fa uno sport come il mio!

A tal proposito, si trovano sponsor nel tuo sport?

Come ho detto poco fa, la squadra provvede a tutte le mie necessità quindi posso dire che sono loro il mio “main sponsor”. Poi certo, ad esempio noi utilizziamo biciclette di marca Specialized perché c’è un accordo tra la casa costruttrice e il team. Instagram poi offre alcune opportunità, ci sono alcuni marchi che ti contattano per potergli fare da brand ambassador.

Nel tuo sport, la figura di riferimento “al femminile” è sicuramente Paola Pezzo, due volte campionessa olimpica in MTB. Ma tu la consideri una fonte di ispirazione?

Lo confesso: non avevo mai seguito il ciclismo prima di iniziare a praticarlo, conoscevo giusto quei nomi di cui tutti parlavano, tipo Pantani e Cipollini. Così lo scorso anno arrivo ad una gara e i miei compagni di squadra mi fanno “guarda, c’è Paola Pezzo!” e io “chi?”.  Poi l’ho conosciuta di persona, mi ha anche premiato ad una gara, però quando lei otteneva i risultati che ha ottenuto io non avevo idea di chi fosse. Ma questo per me vale un po’ per tutti gli sport, non posso certo definirmi una che ama guardare lo sport, solo una grande appassionata della “pratica sportiva”.

Hai un personaggio di riferimento, un “idolo sportivo”, magari in questo o in altri sport?

Ti dico la verità: spesso prima delle gare mi guardo dei video su YouTube di atleti e atlete che vanno in Mountain Bike.  Per cui il primo nome che mi viene da farti è quello di Jolanda Neff, ma anche quello di Pauline Ferrand-Prévot, una a cui spesso mi hanno paragonato… ma solo perché entrambe corriamo con la treccia, lei è molto più forte di me!

C’è disparità tra uomini e donne nel tuo sport?

Mi verrebbe da risponderti di sì, nel senso che ad esempio nelle gare dove ci sono premi in denaro la ripartizione non è mai 50% uomini e 50% donne, anzi, quando va bene sono due terzi per gli uomini e un terzo per le donne, ma del resto neanche il numero di praticanti lo è, anche di alto livello:  in una gara con tanti iscritti, magari gli uomini che potenzialmente possono fare bene sono 200 e le donne sono molte meno. La realtà è che io ho trovato una situazione con la squadra che fa sì che loro per me siano una seconda famiglia, per cui mi sono sentita subito accolta e tra di noi certe differenze non esistono. Però una cosa te la voglio raccontare perché la trovo divertente:  mi capita, a volte, quando mi alleno, di trovarmi a sorpassare dei ciclisti uomini, e lo vedo che a loro questa cosa non va giù, per cui si affannano da morire per cercare di tenere il passo di una donna… A chi ha pregiudizi, insomma, basta rispondere coi fatti!

Che consiglio daresti a chi volesse avvicinarsi a questo sport?

Allora, dobbiamo dire la verità: è uno sport faticoso, quindi o lo si odia o lo si ama. Se ripenso a come è andata per me, posso dire di non fermarsi al primo approccio: nel mio caso, la prima uscita in Mountain Bike fu quasi tragicomica. Però non ho mollato, e questo sport mi ha portato a vedere dei posti meravigliosi. A volte, durante la gara, non è solo la fatica a mozzarti il fiato ma anche il paesaggio: una gara come la “Hero” di Selva in Val Gardena, in mezzo alle Dolomiti e con quattro giorni di eventi collaterali, ti fa pensare di essere in un altro mondo, e non so se ci sono altri sport in grado di farti provare qualcosa di simile, soprattutto se come me ami il contatto con la natura.

A proposito di contatto con la natura: vivere in Casentino ti “aiuta” per lo sport che fai?

Io, da ragazzina, il Casentino lo odiavo, mi stava stretto come capita a molti quando si cresce. Adesso invece lo adoro:  andare in bici nei boschi della nostra vallata è per me non solo un allenamento ma anche un antistress incredibile. Certo, la Mountain Bike è uno sport che ti permette davvero tanto di scaricare le tensioni, ti regala momenti di adrenalina pura, e ti permette, cosa più importante, di metterti alla prova e misurarti con te stessa prima ancora che con le avversarie.

Il momento più bello e quello più brutto da quando gareggi?

I momenti belli sono molti di più di quelli brutti: il titolo italiano, quello europeo lo scorso anno. Rivincerli quest’anno, perché confermarsi è ancora più duro che vincere la prima volta. Le gare che ho fatto, sia per i risultati che per i paesaggi ammirati… Ecco, un momento brutto in particolare non mi viene in mente, posso solo dirti che c’è una gara che mi rimane indigesta ed è la Capoliveri Legend Cup all’Isola d’Elba: il percorso è bello, gli scenari anche ma sono due anni che ci provo e non riesco mai a fare una buona gara. Magari è il percorso che non fa per me, ma mi resta sempre “sul gozzo” questa cosa!

Un’ultima domanda: non vogliamo scivolare in politica, ma cosa ti sentiresti di consigliare a chi si occupa di sport nella “cosa pubblica”?

Sono consapevole del fatto che nelle strade non esistono solo pirati della strada in auto ma anche ciclisti incoscienti:  lo dico perché tutti i giorni faccio 110 km in macchina per andare e tornare dal lavoro, quindi so di cosa parlo. Anch’io ho recentemente avuto un infortunio perché sono stata investita in bici mentre mi allenavo.  Per cui dico questo:  servirebbe maggior educazione stradale, sia per ciclisti che per automobilisti, e anche più spazi per allenarsi al di fuori della sede stradale, per la sicurezza di tutti. E poi, come ho detto prima, dare più visibilità a tutti quegli sport che non ce l’hanno, quindi diciamo tutti a parte il calcio, più o meno.

Comodino.

L'immagine di copertina del podcast, da Ilpost.it

Una volta tanto, riesco a stare al passo coi tempi e seguire un podcast, sui libri, a cadenza mensile. Come non era difficilissimo aspettarsi, è un podcast de Il Post e ha un titolo geniale, “Comodino”. Mi è bastata la prima puntata per decidere di attivare le notifiche relative alle nuove uscite. Nel mio piccolo, faccio il tifo per voi, come sempre!

Volete sapere di che si tratta? https://www.ilpost.it/2023/03/13/comodino-un-nuovo-podcast-sui-libri/

Volete la lista degli episodi? https://www.ilpost.it/episodes/podcasts/comodino/

E poi, chi lo sa? Magari un giorno o l’altro parleranno di uno di questi.

Altri verranno – tributo ai Sangue Misto

Uno dei più considerevoli prodigi che abbia prodotto l’internet, se lo chiedete a me, oltre a dare l’accesso ad una quantità sconfinata – e pertanto ingestibile – di informazioni, è l’aver potuto avvicinare persone che hanno gusti affini in determinate cose, le più eclatanti che mi vengono in mente sono ovviamente film, libri e musica. Mettendo insieme queste due, sono entrato appunto in contatto con Martino Vesentini, grandissimo esperto di hip hop italiano e in particolar modo di SangueMisto, Neffa, Deda, DJ Gruff e tutto quello che è germogliato attorno prima, durante e dopo quel disco folgorante che fu “SxM”. “Altri verranno” avrebbe dovuto, o se preferite potuto, essere il titolo del secondo disco del terzetto, quello che ad oggi non ha mai visto la luce e a questo punto viene da dire “chissà se mai”. Ma è anche un excursus su quello che è successo dopo, nelle carriere dei tre, con tutti gli alti e bassi che hanno fatto seguito all’avere introdotto in Italia un qualcosa che prima, volenti o nolenti, non c’era.

La copertina del libro di Martino Vesentini, opera di Alessia Santangeletta.

Di SangueMisto, rap italiano e varie altre cosette ho parlato anche in questo post qua, un annetto e rotti or sono. Martino però ha fatto di più: ha scritto un intero libro (che potete trovare ordinandolo in libreria, oppure qui o qui) su questo album, sull’epopea del trio che fu tra i primi a far uscire un genere musicale da una cerchia ristrettissima e farlo diventare cosa condivisa – dobbiamo fare lo sforzo di astrazione necessario di immaginarci, o in certi casi ricordarci, che al tempo esisteva un mondo senza internet inteso come strumento massificato e pressoché gratuito di accesso alla musica, per cui anche dire chi è arrivato primo, chi secondo e così via diventa un esercizio di retorica abbastanza stucchevole: a Bologna c’erano loro e gli Isola Posse, a Varese gli Otierrre, dalle mie parti Frankie Hi-Nrg, a Roma gli Assalti Frontali e i Colle Der Fomento, a Milano gli Articolo 31 e insomma mi fermo qui che sennò facciamo notte. Fatto sta: Martino Vesentini ha scritto un libro che parla di quello che è stato “SxM”, ma non in senso personale: quello che è stato per chi aveva quell’età lì in quegli anni lì, raccontandolo in tanti capitoli quante sono le tracce dell’album, e spostando la voce narrante facendola diventare a turno quella di Neffa, di Deda e di DJ Gruff. Il risultato è un lavoro che è insieme intimo e documentaristico, una fotografia che non diventerà mai sbiadita di quello che ha fatto vibrare i cuori di una generazione, e l’ha fatto forse nell’unico modo possibile di raccontarla alle generazioni successive. Il libro è già stato recensito molte volte e sicuramente molto meglio di come avrei saputo farlo io, così ho pensato che una cosa carina poteva essere fare delle domande all’autore stesso, sulle curiosità che la lettura del libro mi aveva suscitato, e che credo ragionevolmente non siano solo mie curiosità. Questo è il risultato della mini intervista.

  1. La prima domanda è d’obbligo: hai potuto parlare con Neffa, Deda e Gruff durante la stesura, o a libro ultimato? E se sì, cosa ti hanno raccontato?

Ho provato a contattarli a stesura quasi ultimata ma purtroppo non ho avuto modo di parlare di questo mio “progetto”, non avevo ancora un’idea precisa sul pubblicarlo o meno, avrei voluto prima farlo leggere a loro, mi sembrava doveroso, ma non è capitato e a quel punto ho deciso di farlo uscire comunque, autopubblicandolo!

  1. Dal libro si capisce che c’è un gran lavoro di ricerca “archivistica”. Qual è secondo te la più bella “perla” che hai scovato mentre cercavi materiali per il libro?

Gran parte del materiale che ho raccontato nel libro era archiviato nella mia memoria, stipato in un angolo ma ben presente, più scrivevo e più mi tornavano alla mente piccoli aneddoti che credevo dimenticati… alcune cose sono frutto della mia fantasia, per questo il libro è da considerarsi a tutti gli effetti un romanzo. Credo che la perla più bella sia l’inizio del racconto, perché descrive un momento che io stesso non conoscevo (nonostante mi ritenessi fino ad allora il più grande esperto vivente dei Sangue Misto!)… da Rockol.it ho infatti appreso che il giorno della partenza di Neffa e Deda per il Salento (per raggiungere Gruff e provare a scrivere il secondo album) coincise con l’uscita di “Aspettando il Sole” nelle radio… è proprio da questo episodio che decisi di iniziare a scrivere, prima di allora questo libro era solo un’idea parcheggiata nella mia testa!

  1. Il tuo dato anagrafico ha fatto sì che tanti momenti salienti raccontati nel libro li hai potuti vivere in prima persona: raccontare queste storie è stato più un viaggio dentro i SangueMisto o dentro te stesso?

Devo dire che la motivazione principale che mi ha spinto a scrivere è stata quella di mettere in ordine i ricordi di quei tempi, ero un appassionato di Hip Hop e, ascoltando tutto il rap che usciva ai tempi sia negli Stati Uniti che in Italia, avevo sentito nei Sangue Misto qualcosa di diverso, potente, maturo. La passione si è spenta dopo l’addio di Neffa alla scena, ma a distanza di più di 10 anni ho riscoperto la voglia di ascoltare nuovamente gli album con cui ero cresciuto, trovandoli comunque molto attuali e riuscendo a rispecchiarmici anche da persona più adulta e consapevole del mondo. Sicuramente questo viaggio nel tempo è stato molto utile anche a livello personale perché mi ha dato la consapevolezza di poter riuscire a pensare e realizzare qualcosa contando solo sulle mie capacità.

  1. Com’è ovvio che sia, ci sono nel libro molti momenti in cui c’è interazione con molti altri artisti contemporanei dei nostri tre, ma ci sono anche delle assenze illustri, da Joe Cassano (se non erro) a Frankie Hi-NRG (di questo sono sicuro), solo per dirne un paio. Sono assenze dovute a esigenze narrative, o semplicemente non c’era interazione tra i SM e una parte della scena hip hop italiana?

In realtà Joe Cassano è citato in uno degli ultimi capitoli, non ho approfondito la sua figura sia per esigenze narrative ma soprattutto perché conoscevo troppo poco la sua storia e sarebbe stato irrispettoso provare a raccontarla. Per quel che riguarda Frankie non credo abbia avuto un impatto sulla scena bolognese, anche lui comunque è citato in una riflessione in cui Neffa si trova per così dire “in disaccordo” con alcuni giornalisti che lo paragonano a Frankie/Articolo 31, non capendo quanto diversi fossero i loro stili. Ho comunque cercato di inserire nel racconto tutti gli artisti che hanno rappresentato qualcosa per me, oltre ovviamente ad aver inciso in qualche modo sulla vita artistica dei tre protagonisti.

  1. Secondo te quando uscirà il secondo disco dei SangueMisto? Io non ho ancora perso del tutto la speranza…

A malincuore ti rispondo che non credo accadrà mai, probabilmente va bene così, come hanno detto loro più volte “era già perfetto così SxM, non avrebbe avuto senso provare a farne un secondo…”. Ma una cosa che sogno davvero è che un giorno possano riunirsi su un palco, tutti e tre insieme, senza un progetto da promuovere, ne una scaletta di pezzi da fare, solo puro freestyle…

Ritornare sul FQ

Dopo i pezzi già scritti negli anni scorsi, ho cercato di raccontare perché e percome ho il fermo proposito di guardare meno partite possibile del Mondiale di calcio in Qatar (ma sicuramente per la finale farò un’eccezione), e di come, per un viaggio di lavoro, il boicottaggio totale sia stato praticamente impossibile. Grazie a Crampi Sportivi il mio post sui Blog del Fatto.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/03/quanto-e-difficile-trovarsi-a-dubai-ed-evitare-i-mondiali-io-non-ci-sono-riuscito/6890996/

La pieve di Cenina, luogo del cuore.

(Pubblicato originariamente su Casentino Più nella versione cartacea). Dopo avervi parlato della Pieve di Sietina e della Torre di Belfiore, era giusto raccontarvi un luogo al quale sono legato anche per mille ricordi di gioventù e infanzia…

Ci sono alcuni luoghi che sono “del cuore” perché legati ad un ricordo personale, ad un momento particolare, magari felice, e per questo non hanno bisogno di essere luoghi con una qualche peculiarità. Luoghi che possono essere tutto per qualcuno, o niente per qualcun altro. Anche un parcheggio di un centro commerciale, forse uno dei luoghi meno suggestivi che si possa concepire, può essere un posto che per qualcuno ha una sua magia. Ci sono invece luoghi dove si respira la storia, e diventano pian piano, nello stratificarsi di una memoria che è insieme personale e collettiva, dei “luoghi del cuore” di un’intera comunità, che lì ha condiviso momenti di aggregazione e vita di collettività, o magari anche di isolamento, ma a cui più persone si possono sentire legate. Per Capolona e i capolonesi, uno di questi posti è sicuramente la Pieve di S. Lucia a Cenina. Si tratta di un gruppo di edifici, costruiti attorno alla chiesa dedicata alla Santa protettrice della vista, che negli ultimi 30 anni sono tornati al loro antico splendore, anzi probabilmente non sono mai stati così belli, e che vengono utilizzati dai giovani dei gruppi parrocchiali per ritiri spirituali, campeggi estivi e numerose altre attività. Da diversi anni, ormai, a Capolona si fa una camminata per il primo maggio che parte e si conclude sull’ampio prato antistante gli edifici in pietra, conosciuti anche dai non capolonesi come “Casa Tabor”, dopo circa tre ore di itinerario tra i paesi che sovrastano il capoluogo, con una bella mangiata collettiva in compagnia. La magia di questo luogo, per chi scrive, sta nella pace che regala quando non è troppo affollato, in cui se ne può apprezzare la bellezza, e nella capacità di far sentire a proprio agio tutti anche quando si è in tanti. Di fatto, si trova in una zona dove ci sono querce e cipressi da un lato, e dove c’è una meravigliosa vista sul fondovalle dall’altro. Dista poco più di due chilometri dal centro cittadino di Capolona, e quindi ci si arriva camminando a piedi in poco più di mezz’ora di buon passo. La strada per raggiungerla è per ampi tratti ombreggiata, e anche se in qualche punto la salita si fa ripida, la vista sulla vallata e le colline ben tenute a vigneti e olivi, rendono la fatica assai più dolce. I rumori della statale (lo sappiamo, non è più Strada Statale, adesso si chiama Strada Regionale, è per capirsi) cominciano ad essere attutiti: già a metà strada sembra di essere in un altro mondo. Chi vi scrive, per esempio, ama tantissimo farci un salto nelle domeniche pomeriggio autunnali in cui i prati sono ben verdi e si riempiono di foglie secche, fermarsi un attimo, chiudere gli occhi e tornare al primo ritiro che in questa casa adiacente alla chiesetta sia mai stato organizzato, correva l’anno 1993 e non ancora tutto l’edificio era fruibile. Però c’era già il campo da calcio che c’è ancora oggi, meta prediletta dei ragazzini che eravamo ai tempi. C’è una foto che ci ritrae, tutti ben intabarrati nei nostri maglioni dai colori improbabili, davanti ad un grande camino che ancora riconoscerei tra mille, che credo sia negli album dei ricordi di praticamente tutti i presenti. Al momento non ce ne rendevamo conto, avevamo chi 14 anni, chi 16, chi 18, ma eravamo a modo nostro dei pionieri, e tra quelle mura sono nate, da allora, idee, storie d’amore a volte finite bene e altre finite male, in qualche caso vocazioni. Pareti che accolgono ricordi di ragazzi che poi diventano adulti e nel frattempo le pareti sono ancora pronte a custodire i ricordi dei loro figli. Cosa fa di un luogo un “luogo del cuore”, se non il fatto che diventi importante per un numero sempre più grande di persone?

La piccola chiesetta (cinque panche e qualche sedia bastano a riempirla) è distante circa 800 metri dall’abitato di Cenina, ha un abside scuro e il quadro di Santa Lucia dietro l’altare, un dipinto in olio su tela di 59 x 72 cm con la Santa che tiene nella mano destra la palma, simbolo del martirio, e nella sinistra il piatto con gli occhi, opera minore di scuola toscana, databile tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII secolo. La facciata, probabilmente realizzata nel restauro del 1842, è definita una quinta, perché sviluppata in altezza supera la quota dell’estradosso della copertura ed è caratterizzata da paramento murario a vista in filari regolari, da portone con lunetta semicircolare e da finestra oculare. Non si tratta della chiesa “originale” della piccola frazione di Capolona, visto che un documento del 1109 registra una donazione al monastero di Camaldoli, da parte di Indizzone, di terreni e case poste in Baciano, stipulato il 17 settembre “davanti alla porta della chiesa di S. Maria di Cenina”. Questo a rimarcare che comunque stiamo parlando di una zona del Comune di Capolona che si porta dietro un millennio di storia, se non di più. La chiesa di Santa Lucia, comunque, si ritrova già documentata nella cronaca che il Vescovo Francesco da Montepulciano fece nell’estate del 1424, in cui annota che la domus versasse in cattive condizioni ma che ci fosse comunque un parroco, da lui descritto come clericus aretinus Ser Benedictus. Si ritiene che anche questa zona rientrasse tra i possedimenti Guelfi, più volte contesi tra Arezzo e Firenze nel periodo che precede e segue la battaglia di Campaldino. Oggi la Pieve di S. Lucia a Cenina è anche inserita nel circuito di percorsi codificato da Regione Emilia-Romagna e Regione Toscana “Le Vie di Dante”, nell’itinerario dedicato al Casentino. Anche i dintorni sono ricchi di storia, tra l’abitato di Ponina che diede i natali al famosissimo brigante Sagresto, al secolo Raffaello Conti, raccontato nel 2013 dal libro “Sagresto sventurato citto” di Enzo Gradassi, ed ebbe per svariati anni come parroco il famosissimo sacerdote e partigiano Don Tarquinio Mazzoni, che fu uno dei primi ad aiutare la brigata “La Teppa” di cui faceva parte anche Licio Nencetti, e che venne nominato primo sindaco di Capolona dopo la fine della seconda guerra mondiale. E la chiesa bizantina, poco distante da quella di Cenina, nella parte di Ponina che tutti conoscono come “Il Santo”, dedicata a Sant’Apollinare, edificata presumibilmente nel IX secolo d. C. e successivamente ricostruita dopo il sisma del 1796 che la fece di fatto crollare: si ritiene peraltro che sotto l’attuale pavimento ci siano ancora i mosaici della costruzione precedente. Luoghi di storia, luoghi di cultura, luoghi di bellezza paesaggistica, tutti a poche centinaia di metri di distanza l’uno dall’altro. Ma il punto di partenza per questo itinerario, che può poi proseguire verso la vicina torre di Belfiore (di cui abbiamo parlato in un numero recente di Casentino Più) e l’abitato di origine medievale di Bibbiano, che conserva ancora parte della cinta muraria, non può che essere Cenina. La prima frazione che si incontra salendo dalla strada che dal Comune di Capolona si arrampica sulla collina, per poi fare un semicerchio e toccare tutte le frazioni già citate, scendere verso Botti e ritornare al capoluogo dalla parte di quella che i ragazzi chiamavano Villa Ciapetti, anticamente nota come “Castello della Nussa” e che oggi ospita una struttura ricettiva, nella zona dell’uscita Capolona Sud della SR 71. Sarà perché tanti sono entrati per la prima volta tra le mura di Cenina da ragazzi e volentieri ci ritornano da uomini, è un posto di cui sarà bene avere cura anche per le generazioni a venire.

The Sport Light

The Sport Light è un sito web che si propone di fare informazione sportiva seguendo i dettami del cosiddetto Slow Journalism. Per farlo, hanno studiato un piano di abbonamenti decisamente alla portata di tutti (a partire da 2,50 euro al mese). Qualche tempo fa mi hanno invitato a collaborare, e nei giorni scorsi è uscito il mio primo pezzo, di una rubrica che abbiamo deciso di chiamare Screen, per il doppio senso dall’inglese (la parola “screen” identifica sia lo schermo che il blocco nel basket). Lo trovate a questo link, spero che vi convinca ad abbonarvi e a leggermi.