Il Casentino… come non lo avevate mai visto!

(Articolo uscito su Casentino Più di primavera 2018)

Tra film (famosi e meno noti) ambientati nella nostra vallata, film che lo citano pur senza mostrarlo, e capolavori della letteratura italiana che ne parlano, il Casentino ha acquisito un suo “posticino al sole” che forse sarebbe il caso di provare a far fruttare in qualche modo…

Valeria: “Guardi, le avevo ritagliato l’articolo sulle antiche leggende del Casentino!”
Mascetti: “Ah interessante! Ma lei se la blinda la supercazzola prematurata, come se fosse anche un po’ di Casentino, che perdura anche come cappotto, vede… M’importa sega!”

Uno dei più celebri scambi di battute di “Amici miei Atto III” sintetizza – purtroppo – in modo lapidario l’interesse che ingiustamente il Casentino riesce a suscitare in chi non ci vive, non lo conosce, non ha un qualche interesse specifico verso questa nostra bellissima vallata. Tralasciando l’accenno al cappotto, forse involontario e forse no, purtroppo dobbiamo ammetterlo:  il turista, quando pensa alla Toscana, difficilmente pensa al Casentino come mèta del proprio viaggio, così come difficilmente pensa ad Arezzo. E dire che in tanti hanno fatto cenno, più o meno direttamente, al Casentino e ai suoi borghi, in opere letterarie così come nei film.  Mostrandolo, oppure parlandone, in ogni caso facendo sì che i suoi luoghi venissero in qualche modo veicolati.  Come nella versione per grande schermo de “La Locandiera”, adattamento del testo teatrale di Carlo Goldoni realizzato nel 1980 dal regista Paolo Cavara, con un cast di tutto rispetto (vi bastano Adriano Celentano, Claudia Mori, Paolo Villaggio e Milena Vukotic?): alla fine del film, uno dei protagonisti esclama “Io ho una villa in quel di Poppi, tra poderi e pioppi”.

Senza dimenticare, ovviamente, il travolgente successo de “Il Ciclone”, il film di Leonardo Pieraccioni campione d’incassi della stagione 1996/97 girato tra Laterina, Poppi e soprattutto Stia.  Solo questo film meriterebbe una riflessione a parte:  se è vero infatti che Pieraccioni non è mai molto interessato a valorizzare i luoghi in cui vengono girati i suoi film, preferendo sempre e comunque una Toscana “indefinita” e comunque sempre molto “fiorentina” – diversamente da quanto fece per esempio Roberto Benigni con il suo “La vita è bella”, dove l’ambientazione “Arezzo, 1943” è chiara fin da subito – è altrettanto vero che l’onda lunga del successo del film non è mai stata cavalcata come avrebbe potuto.  Adesso in Casentino faremo tutti il tifo perché il film di Andrej Konchalovsky, “Il Peccato – una visione”, sulla vita di Michelangelo Buonarroti, possa rendere nota ai più l’esistenza di un luogo meraviglioso com’è il Castello di Poppi. In cui vennero anche ambientate le prime scene del film “Una vergine per il principe” di Pasquale Festa Campanile, con Vittorio Gassman, Virna Lisi e Philippe Leroy, correva l’anno 1965.  Ma non nel solo cinema risuona il nome del Casentino.  Già nel 1914 Dino Campana diede alle stampe la sua opera più famosa, i Canti orfici, di cui un’intera sezione è intitolata “La Verna”, di cui un passaggio merita di essere riportato per intero:

Ho sostato nelle case di Campigna. Son sceso per interminabili valli selvose e deserte con improvvisi sfondi di un paesaggio promesso, un castello isolato e lontano: e al fine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castelli sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo: la poesia toscana ancor viva nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo languidamente nella sera: l’ora di grazia della giornata, di riposo e di oblio.

Dalla vita di Campana e della sua relazione con la poetessa Sibilla Aleramo è stato tratto un film, diretto da Michele Placido, con Stefano Accorsi, Laura Morante ed Alessandro Haber, “un viaggio chiamato amore”. La buttiamo lì:  oltre agli itinerari francescani, perché non ricostruire gli itinerari che Dino Campana seguì nel suo viaggio da Marradi a La Verna e ritorno? Un “cammino letterario” che, proprio per la sua unicità, farebbe parlare di sé e del Casentino.  E se non bastasse Campana, ancora un po’ a ritroso nel tempo troviamo Gabriele D’Annunzio, che nella sua poesia “I Tributarii”, contenuta nella raccolta “Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi” ci regala questi meravigliosi versi:

Chi loderà il Bisenzio
sì caro a quell’antico
favolatore ornato
che lodò la bellezza
della donna perfetta?

E chi la Pescia e l’Era?
E chi la Pesa e l’Elsa?
Chi la Greve e la Sieve?
e i rivi freddi e molli
del Casentino giù pe’ verdi colli?
[…]
Cade la sera. Nasce
la luna dalla Verna
cruda, roseo nimbo
di tal ch’effonde pace
senza parole dire.
Pace hanno tutti i gioghi.
Si fa più dolce il lungo
dorso del Pratomagno
come se blandimento
d’amica man l’induca a sopor lento.

Ma prima di tutti c’era stato Lui, Dante Alighieri, il Sommo Poeta, che proprio nel testo più famoso dell’intera storia della Letteratura Italiana, più volte cita il Casentino.  Non sempre teneramente, a dire il vero:

Li ruscelletti che de’ verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non
indarno;
chè l’immagine lor vie più m’asciuga
che ‘l male ond’io nel volto mi
discarno. 

(Non è un caso se anche D’Annunzio parla di “rivi freddi e molli”: è evidente come volesse citare proprio Dante). Il Casentino ritorna poi nel canto XIV del Purgatorio, dove a proposito dell’Arno il Poeta ci dice:

Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia.
[…]
Tra brutti porci, più degni di galle
che d’altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso.

Il Casentino insomma non è solo una vallata come tante altre: è immagine che riempie gli occhi e parola che scalda il cuore e la mente.  A tutti noi saperlo raccontare ancora, di nuovo, perché chi non lo conosce oggi possa avere la fortuna di poterlo incontrare domani.

Il più lungo giorno

E niente, stavo pensando che la maggior parte di voi ha letto la prima parte di questo racconto (pubblicata sul numero 5 de “Il Leggio”, lo trovate in pdf QUI) ma non la seconda. Quindi ho pensato di riproporvelo in versione integrale. In BLU trovate la parte già pubblicata, in ROSSO quella inedita.

Il Più Lungo Giorno

Caro Signor Papini,
sono ancora una volta a chiedervi la restituzione del manoscritto da me consegnatovi in presenza del Soffici presso il tipografo Vallecchi. Non avendo ricevuto risposta alle mie precedenti missive, mi trovo costretto a ricordarVi quanto per me detto manoscritto sia importante. Qualora la Sua persona non giudicasse necessario reperire e restituirmi quanto di mia proprietà, sarà mia cura scendere a Firenze con un acuminato coltello e risolvere detta questione da uomini.
Cordialmente, vi saluto.
Campana Dino

Giovanni Papini lesse e rilesse più volte la lettera: non sembrava proprio trattarsi di uno scherzo. Quella carta gialla e grossa, quella calligrafia nervosa che aveva già visto altre volte, erano proprio le sue, di Dino Campana. Restava da stabilire quanto facesse sul serio con queste minacce, e se avesse capito qualcosa di quanto stava succedendo laggiù, a Firenze, lontano dal borgo di Marradi da dove il poeta pazzo proveniva.
Ma Dino non era un villico di cui ci si poteva prendere gioco facilmente, Dino aveva viaggiato in lungo e in largo per l’Italia e per il mondo, era stato persino due anni in Sud America. Il problema, con quel soggetto, era la sua totale e completa imprevedibilità. Mentre si versava un bicchiere di cordiale nel suo soggiorno, Papini si decise: quella sera stessa sarebbe andato da Ardengo, si sarebbe fatto ricevere da lui e gli avrebbe parlato della questione. Dovevano decidere insieme quello che fare, perché insieme si erano ritrovati all’inizio di questa ingarbugliata vicenda, e insieme, che diamine, ne sarebbero usciti!

Il calesse si fermò al cancello della casa padronale dei Soffici, a Poggio a Caiano. Giovanni Papini percorse il viale a piedi e bussò al portone di casa: nessuna risposta. Decise di attendere un poco, prima di bussare una seconda volta, poi una terza. Ancora niente, tutto taceva. Eppure c’erano luci che provenivano dall’interno della casa. Che Dino Campana avesse già messo in atto i suoi propositi?
“Giovanni! Mio buon amico! Cosa ti porta da queste parti così, senza preavviso? Perdona il ritardo nel venirti ad aprire, ma ero indaffarato con un quadro e non riesco proprio a venire a capo di un colore… ma che ti succede? Sembra che tu abbia visto un fantasma!”
“No, Ardengo, nessun fantasma, è che credevo che Campana… ah, lascia perdere! Fammi entrare e ti spiegherò meglio perché ti sembro tanto turbato.”
“Ma certo! Non amo i misteri, lo sai bene, quindi prima avrò una spiegazione per tutta questa tua agitazione, e meglio sarà!”

I due si recarono nello studio del Soffici, e stavano seduti in silenzio, pensando ognuno per conto proprio a quanto Papini aveva detto poco prima. Ardengo Soffici, arrampicato su uno sgabello, contemplava il quadro a cui stava lavorando con aria perplessa., ma il suo sguardo andava oltre la tela, sembrava perdersi oltre l’orizzonte dei colli fiorentini. Giovanni Papini, semisdraiato su un sofà, si tormentava le mani, leggermente meno agitato di prima ma comunque coi nervi a fior di pelle. Fu lui a prendere la parola per primo, dopo i pochi minuti che erano serviti a entrambi per riordinare i pensieri.
“Secondo me è tutta una coincidenza colossale! Diciamocelo francamente, quel Campana è uno spostato, non è del tutto sano di mente. A quanto ho saputo, entra ed esce in continuazione dai manicomi: non può essere venuto a conoscenza di una cosa così grande, è un sempliciotto che proviene da un villaggio di contadini!”
“A me le coincidenze non piacciono” – gli rispose Soffici – “anzi, se devo dirti la mia, non credo che esistano. Il suo interesse a riavere quel manoscritto ha qualcosa di più profondo di una semplice gelosia per le proprie cose, secondo me. Non chiedermi come sia riuscito a scrivere le cose che ha scritto in quei fogli, ma il fatto è che dobbiamo fare in modo che nessuno lo prenda mai sul serio!”

A Marradi, intanto, c’era nell’aria il profumo delle bruciate. Dino Campana parlava con tutti di quei due fiorentini che lo avevano raggirato. Ne parlava col prete, col dottore, con l’ufficiale della posta, col farmacista, e a tutti ripeteva la stessa tiritera: “Te lo dico io, te lo dico. Quei due cialtroni di Soffici e Papini per ora non mi rispondono. Tra un po’ faranno finta di aver perso il mio manoscritto, e mi risponderanno che purtroppo non se n’è potuto fare di nulla perché il testo non si ritrova, e quanto gli dispiace e via e via. Ma la realtà, caro mio, è un’altra! Loro non mi vogliono pubblicare perché sono INVIDIOSI! Sanno benissimo che il libro è buono, magari non perfetto, ma buono abbastanza da essere pubblicato. Così, per paura che si parli un poco anche di Dino Carlo Giuseppe Campana da Marradi, e un po’ meno di Ardengo Soffici e del suo degno compare Giovanni Papini, mandano tutto a monte. Ma lo stupido sono stato io, ad avergli consegnato l’unica copia che avevo del testo intero! E tanto troverò lo stesso il modo di fregarli, perché ho buona memoria, io, altro che testa matta! Ora aspetto ancora un po’ e poi tu vedrai: se mi piglia la voglia, scendo a Firenze e mi faccio ridare il taccuino, con le buone o con le cattive. Altrimenti mi metto da una parte e lo riscrivo, che magari mi potrebbe anche venire meglio! Poi lo fo stampare, ne porto un bel po’ di copie a Firenze e mi metto a venderle. O voglio vedere le facce che fanno, quei due! Voglio proprio vedere!”
La gente del paese, però, lo considerava più che altro uno svitato, uno che non aveva tutte le rotelle al posto giusto, uno che era un po’ “come la su’mamma”, insomma.
Ma faceva anche un po’ simpatia, Dino, a Marradi, e questo suo sogno di diventare uno scrittore aveva un che di contagioso, così come era bello e coinvolgente sentirlo raccontare dei suoi viaggi in giro per l’Italia e per il mondo, per loro gente d’Appennino che non aveva mai lasciato la montagna. Era bello passare le serate con lui, a farsi raccontare, con quel suo tono enfatico e sognante, dei suoi viaggi, veri o inventati poco importava. Di quando era stato da Firenze alla Verna a piedi, oppure del Sudamerica, a seconda di come gli andava nel momento. Così alla fine l’aveva trovata, un po’ di gente disponibile a dargli una mano, e cinque lire qua, e due là, era riuscito, grazie all’aiuto dei marradesi, a raccogliere un po’ di soldi per potersi presentare dal Bruno Ravagli, che di Marradi era il tipografo, a farsi stampare un po’ di copie de “il più lungo giorno”, quell’opera che era insieme poesia e diario di viaggio, fantasie e autobiografie. Ma con qualche accorgimento, rispetto al manoscritto autografo consegnato ai due cialtroni, per far vedere che lui, Dino Campana da Marradi, non era il tipo da farsi mettere nel sacco da quei due signorotti di città, buoni solo per dirsi a vicenda quant’eran bravi.
Il titolo, innanzitutto, ché cambiando quello si sarebbe da subito potuto capire se la precedente stesura se l’eran letta o meno. Così Dino pensò alla prima cosa che gli veniva in mente, un titolo talmente aulico da voler risultare antipatico a tutti quei letterati fiorentini. “Canti Orfici”, così, per far capire che anche a Marradi si sapeva qualcosa di letteratura classica, e non c’era bisogno di esser nati lì per avere un po’ d’arte dentro. Poi, all’interno, un paio di dediche – celate ma non troppo – per quei due, così che se il libro gli fosse passato in mano anche solo per caso, o mentre Dino era al culmine del successo, se non erano proprio delle teste di legno, avrebbero capito che si rivolgeva a loro. La prima, nel sottotitolo, Die Tragödie des letzen Germanen in Italien, la tragedia dell’ultimo germanico in Italia, per far capire a lorsignori come la sua arte fosse passata ingiustamente, anzi, tragicamente, inosservata, come se non lo ritenessero neppure degno di esser considerato dalla scena fiorentina, la culla dell’italiano che lo rigettava come straniero. La seconda, nell’ultima pagina, con una frase presa da Walt Whitman e modificata all’uopo. L’originale diceva The three were all torn and cover’d with the boy’s blood, i tre erano laceri e coperti col sangue del ragazzo, ma poiché loro non erano three ma piuttosto two, la frase Dino la fa diventare They were all torn and cover’d with the boy’s blood. O vediamo, che se mi fanno girare le scatole ci penso io, il coltello di cui gli scrissi ce l’ho ancora, che si credono?

A Firenze, nel frattempo, due insolitamente timidi Ardengo Soffici e Giovanni Papini erano nella sala d’attesa della caserma dei carabinieri, chiedendo in modo vago e assai confuso di venir messi in contatto con quello dei Servizi Segreti, ma si, quello che per copertura fa il pasticcere in via Ghibellina, e che da soli non ci son potuti andare perché oggi è giorno di chiusura, signore, e noi non si sa dove stia di casa quel signore lì. I militi dell’arma, indecisi se chiamare il pasticcere in questione, il manicomio o fare un viaggio a Sollicciano per far passare a questi due la voglia di fare gli spiritosi, nel pieno della propria solerzia optarono per un salomonico calcio nelle terga dei due, che cominciavano a pensare di starsi trovando in un incubo, tanto la situazione assumeva contorni disperati.
Eppure la lettera recapitata alla redazione di Lacerba, la rivista da loro diretta, parlava chiaro, con tanto di bollo in calce:
Individuato pericoloso sovversivo tra i poeti italiani, uomo avvezzo a lunghi spostamenti e con abitudini bizzarre. Ogni manoscritto inedito che dovesse giungere presso la Vostra rivista dovrà essere posto al vaglio preventivo dei Servizi Segreti, perché potrebbe contenere messaggi in codice cifrato, utili a fornire al nemico informazioni circa le nostre Forze Armate. Per qualsiasi dubbio, prendete una fetta di torta della nonna dal pasticcere di Via Ghibellina, sarete ricevuti con la massima solerzia. La patria, sentitamente, ringrazia.

Non poteva trattarsi di un falso: il bollo in ceralacca era davvero stato posto con un timbro del Regno d’Italia.
C’era solo una soluzione: il manoscritto de Il più lungo giorno doveva sparire, o starsene ben nascosto per un po’. E per nessuna ragione al mondo sarebbe dovuto finire nelle mani di un editore: i messaggi in codice in esso contenuti erano a volte talmente evidenti da risultar chiari anche a loro due, letterati e votati all’azione, seppur non pratici di guerre e spionaggi vari ed eventuali! Farlo stampare avrebbe significato certamente fare in modo che il nemico si facesse recapitare tutte le informazioni di cui aveva bisogno per prevalere sulla nostra povera patria, per di più in un formato insospettabile, com’è quello di un libro!
Doveva essere così per forza: Soffici e Papini erano giunti entrambi alla medesima conclusione: dietro quell’aria da mezzo matto, quasi da poeta maledetto, di Campana, si celava un’abile spia al soldo degli eserciti nemici. O cosa c’entravano, altrimenti, tutte quelle descrizioni di Faenza, di Bologna, di Firenze e dei boschi dell’alto Casentino, in un libro di poesie? Lo scopo era chiaro: dare al nemico preziose indicazioni sulla geografia dei luoghi, sulle fortificazioni delle città, e magari infilare anche qualche messaggio in codice che un infiltrato in Italia avrebbe potuto capire. Si, ne erano convinti. Dino Campana era un traditore della Patria, che nei suoi viaggi per il mondo aveva preso contatti con potenze straniere e adesso era tornato in Italia per riferire a loro delle sue indagini. Del resto, chi avrebbe badato alle bislacche domande, agli strambi modi di fare, di un soggetto del genere?

(Per sapere come va a finire, trovate il resto su “Come una mano che saluta da un treno”, Edizioni Helicon, 2017)