Una regola non scritta delle recensioni letterarie di romanzi contemporanei è che non bisognerebbe mai recensire libri di persone che si conoscono, soprattutto se le si sono conosciute PRIMA che diventassero scrittori. La mia fortuna in tal senso è che non faccio recensioni letterarie stricto sensu, ragion per cui nulla mi vieta di parlare del libro del mio ex compagno di università Andrea Scanzi, “I migliori di noi”, appena uscito da Rizzoli ed ambientato nella mia nativa Arezzo.
Ci sono alcune cose che mi preme sottolineare di questo libro, e che esulano dalla bontà del libro stesso – che comunque mi sono letto in due giorni, quindi ha l’indubbio pregio di essere ben scritto. La prima di queste cose è il bellissimo tributo di Arezzo che ne viene fatto: dell’Arezzo dentro le mura della città vecchia, degli scorci poco conosciuti agli aretini stessi e ovviamente ancor meno a chi viene da fuori, del materiale umano di questa città che emerge in tutta la sua tridimensionalità. L’aretino bubatore, dalla lingua tagliente e sempre pronto a lamentarsi, ma di animo buono, se lo si sa prendere. La città che quando ci fai un passo dentro ti accoglie e ti strega, questa Arezzo così “inconsapevolmente bella” che gli ultimi ad accorgersene sono proprio gli aretini.
La seconda – vivaddio – è che Arezzo, la città dei “botoli ringhiosi” per dirla col Sommo Poeta, sa essere ironica ed autoironica, in modi che spesso non emergono, forse per quella sua toscanità ghibellina, lontana anni luce dalla presunzione sottile di Firenze. E Andrea Scanzi – non starò qui a dilungarmi nel dirvi che c’è dell’altro anche nell’autore, oltre a quello che vediamo in TV, perché ve lo diranno in millemila pezzi, tutti molto meglio di quanto saprei fare io – è stato brillantissimo nel sintetizzarlo, in questo passaggio:
Ultimamente in questa città nascono solo cantanti stonati, ministre citrulle e giornalisti stronzi. È un bel problema.
Se continua così, Pietro Aretino andrà da San Pietro e chiederà un nuovo nome d’arte. Che so, Pietro il Biturgense.
Ecco, questo passaggio sintetizza Arezzo nella sua essenza, non solo “timida anche quando è sabato sera”, ma anche critica feroce verso l’interno tanto quanto verso l’esterno, qualità non da poco e spesso non sottolineata da chicchessia. In un mondo in cui tutti hanno la verità in tasca, saper essere autocritici è un pregio troppo spesso sottovalutato.
Ora, il romanzo si legge bene perché la trama ha una sua linearità e uno sviluppo che non mira a sorprendere il lettore con colpi di scena continui, ma a tenerlo agganciato al dipanarsi della storia, fino al [SPOILER, ma non troppo] finale aperto [/SPOILER] tramite il racconto di una storia di amicizia persa e poi ritrovata, dei perché e dei percome, che sono sensazioni che hanno una sua universalità tale per cui potremmo benissimo prendere il romanzo di peso e spostarlo, che so, da Arezzo a Udine o ad Ancona (tanto per dire due città italiane dello stesso ordine di grandezza) e tante cose sarebbero rimaste le stesse. Non tutte, ovviamente, perchè gli anconetani e gli udinesi non sono gli aretini. I rapporti di amicizia che si perdono e si riagganciano a distanza di anni sono uno dei temi più trattati nella storia del romanzo europeo, potrei fare tanti di quei nomi da fare una lista comunque lacunosa, per cui ne faccio uno solo e accontentatevi: “Le Braci” di Sándor Márai. Ovviamente lì c’è un registro molto più tragico, mentre qui siamo in un ambito più scanzonato: Andrea Scanzi, per scrivere questo libro, ha detto di essersi ispirato a Marco Malvaldi, e se ne trovano indubbiamente le tracce (nei dialoghi tra i personaggi anziani e quelli più giovani, ma anche nell’occhio sempre ironico del narratore verso gli usi e i costumi dell’Italia di oggi), così come nel precedente (“La vita è un ballo fuori tempo”, se non lo conoscete, recuperatevelo e leggetevi anche quello, male non vi fa, anzi) c’erano dei rimandi in termini di linguaggio che solleticavano il miglior Stefano Benni. Ma evidentemente fin qui non sono stato convincente nello spiegarvi perché dovreste leggervi questo libro, me ne rendo conto. Sintetizziamo.
C’è Arezzo, abbiamo detto. Ci sono una schiera di tipi umani. C’è una storia di amici che si perdono e si ritrovano. E poi? Poi c’è Andrea Scanzi, che nel bene o nel male è una delle penne più pungenti che abbiamo oggi in Italia, ma c’è in un modo per certi versi inedito. L’Andrea Scanzi narratore, pur senza rinunciare ad essere ironico nel modo che da sempre lo contraddistingue, mostra in questo caso un’indulgenza che in altri suoi scritti, per motivi che dovrebbero sembrarvi ovvi, non ha. Ah, e c’è la musica, come sempre, come in tutto quello di cui scrive Scanzi, anche quando magari ad una prima occhiata non ce ne accorgiamo.
Non c’è solo una città di provincia, insomma, seppur sia un protagonista ingombrante in questo racconto. C’è una storia che mischia provincia e caratteri universali, musica pop e prog-rock, scorci da cartolina e scene di vita odierna, ironia e sentimenti, uno ieri analogico che resiste fieramente ad un oggi digitale. Forse vi sembra poco. Non lo è, credetemi.
Un’ultima cosa, se siete arrivati a leggere fin qui e siete aretini: quasi tutti i comprimari del libro sono ispirati più o meno liberamente a persone realmente esistenti. Alcune hanno il loro vero nome, altre si capiscono bene, per altre ancora ci vuole uno sforzo in più. Ma all’occhio del sottoscritto, questo è un pregio: non tutto può essere svelato, la bellezza di un’opera letteraria è anche (soprattutto?) in quello che NON è scritto a chiare lettere. E in ogni caso, se vi capita di incontrarlo al Tuscanative, potete sempre chiederglielo di persona.
Ah, per quanto riguarda la trama, e un resoconto della serata di presentazione – 350 persone presenti, da Arezzo e non solo, non so se rendo l’idea, andate qui, ché l’autore del pezzo è anche un personaggio del libro, per cui scrive “da dentro” ed è indubbiamente più bravo – e lineare – di me. E comunque, ve l’avevo detto già all’inizio, che questa non era una recensione.