A.S.D. FALTERONA RUN: IL BELLO STA NEL DISLIVELLO!

(Pubblicato originariamente sul numero 99 di Casentino Più, autunno 2021)

È una bella giornata di fine estate, l’ideale per fare un po’ di sport all’aria aperta: le giornate sono lunghe e non fa più quel caldo terrificante che a tratti rendeva faticoso fare qualsiasi cosa. Per i boschi, poi, deve essere ancora più fresco. E invece Simone Maccari e Leonardo Picchi accettano di incontrarmi per una chiacchierata, in un bar coi tavolini all’aperto, probabilmente rinunciando all’allenamento quotidiano, e non me lo fanno pesare, anzi: mi offrono pure uno spritz! Quando si dice che un’intervista parte subito col piede giusto… Loro sono tra i soci più attivi della A.S.D. G. S. Avis Pratovecchio Falterona Run, un gruppo nato in anni molto recenti, con un intento ben preciso, ma che poi è diventato molto di più.

Cominciamo proprio da qui: come e perché nasce la Pratovecchio Falterona Run…

Il gruppo è nato tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 per uno scopo ben preciso: salvare il Trail del Falterona da una probabile quanto inauspicabile fine. La società sportiva che lo aveva organizzato negli anni precedenti, infatti, aveva deciso che per loro poteva bastare così, che non avrebbero proseguito con l’evento negli anni a venire. Noi a questa gara e a questo territorio però ci siamo legati in modo profondo, e non potevamo accettare che un evento sportivo così bello scomparisse dal calendario. Così ci siamo guardati in faccia, ci siamo contati e abbiamo detto: ci proviamo a organizzarlo con le nostre forze, e con l’appoggio delle realtà del territorio? Ci siamo detti di sì, e da lì siamo partiti.

Da lì siete partiti, e però non vi siete limitati “solo” all’organizzazione di questa gara.

Come in tutti i piccoli paesi, le cose funzionano se tutti riescono a remare nella stessa direzione per farle funzionare.  Per l’organizzazione del Trail del Falterona, che comunque è una gara che richiama centinaia di persone e ha costi – per noi – abbastanza elevati, riceviamo l’aiuto di tutti. Dell’Avis, in primo luogo, che ci ha accolti nel proprio gruppo sportivo permettendoci di fatto di nascere come associazione sportiva, ma anche del Comune di Pratovecchio Stia, dell’Ente Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, di attività commerciali che ci sostengono materialmente o che ci sponsorizzano, ma anche di privati cittadini che ci danno una mano in tutti i modi. Noi sentiamo il dovere di ricambiare quanto ci viene dato: ad esempio, a inizio settembre siamo stati a dare una mano alla preparazione e alla realizzazione della “Straccabike”. Ma è solo un esempio, ce ne potrebbero essere altri.

Appena nati, vi siete subito trovati a fare i conti con la pandemia di Covid-19: non deve essere stato semplicissimo…

È stata dura per tutti e lo è ancora oggi. Le gare amatoriali hanno una marea di limitazioni che purtroppo fanno sì che molti iscritti rinuncino anche all’ultimo momento. Mentre una volta la variabile che poteva incidere sul tasso di presenze ad una gara poteva essere essenzialmente il meteo, oggi purtroppo entrano in gioco anche altri fattori. Sempre per rimanere alla Straccabike, ad esempio, il numero dei partecipanti è stato sicuramente buono, ma gli iscritti erano tanti di più di quelli che si sono effettivamente presentati. Per uno sport come il trail, poi, questa cosa probabilmente si sente più che per altre tipologie di attività.

Spieghiamo meglio questo punto: perché?

Innanzitutto va detta una cosa: nel trail come quello del Falterona o tanti altri analoghi, ci sono un tot di atleti, non tantissimi, che si iscrivono e gareggiano per vincere. Poi ce ne sono moltissimi altri, la stragrande maggioranza, che si iscrivono perché la gara la fanno con sé stessi e perché vogliono vivere l’esperienza nella sua totalità. Una gara di Trail è bella se ti puoi fermare a vedere gli scorci, se la ristorazione durante il percorso è buona, se all’arrivo puoi fare una bella doccia calda e mangiare insieme a tutti gli altri con cui hai condiviso questa esperienza. Ecco, il limite maggiore dallo scoppio della pandemia a oggi, è stato – dopo il fattore di rischio, ovviamente – proprio questo: come fai a organizzare un trail dove alla fine non puoi consentire agli atleti (o presunti tali: si tratta di eventi aperti a tutti) di farsi una doccia e di poter partecipare a un “pasta party” a fine gara? Molti, alla fine, si scoraggiano e decidono di non gareggiare. È un dato di fatto, e possiamo solo sperare di lasciarcelo alle spalle il più presto possibile.

Ad oggi, quante persone fanno parte dell’associazione sportiva?

Tra tesserati e “simpatizzanti”, siamo oltre 50 persone, e questo fa di noi una società numericamente importante. Tramite noi si può ottenere la tessera Fidal, abbiamo una convenzione con un centro medico a Poppi per le visite medico-sportive, per massaggi e fisioterapie. Cerchiamo di tenere il costo delle tessere il più basso possibile, come sanno i nostri iscritti, e una regola che ci siamo imposti fin dal primo giorno è che non esistono differenze tra i soci, siano essi fondatori, parte del direttivo, con incarichi o senza.

E cosa bolle in pentola, per il 2022?

Ovviamente l’orizzonte primario è quello di ricominciare con il Trail del Falterona, ne abbiamo una voglia matta e non vediamo l’ora! Non possiamo ancora confermare la data ufficiale perché ne dovremo individuare una che non sia in concomitanza con altre cose, ma ce la faremo. L’idea sarebbe quella di proporre tre percorsi, rispettivamente di 10, 30 e 50 km circa. Poi vorremmo organizzare alcune altre cose: una nuova edizione della “Tra pievi e castelli”, con partenza e arrivo dalla Pieve di Romena, e magari rifare qualche iniziativa con le scuole, come abbiamo già fatto al Canto alla Rana, con una corsa non competitiva per i ragazzi della quarta e quinta elementare, dove all’arrivo abbiamo distribuito a tutti una medaglia e una colazione con pane e Nutella! Dobbiamo farci trovare preparati al ricambio generazionale: quando abbiamo cominciato noi, le gare di trail le vincevano i quarantenni, oggi a vincere sono ragazzi che hanno vent’anni. Scherzi a parte, a dire il vero, ci piacerebbe tanto anche fare una cosa veramente da pazzi: una 100 miglia, come ne fanno già da altre parti…

Un momento: 100 miglia, cioè 160 chilometri?

Esatto! Ma nel trail running, che è una disciplina profondamente diversa dalle gare podistiche su strada, ad esempio, più la gara è lunga e più diventa un “viaggio” vero e proprio. Serve una grande preparazione mentale, analogamente a quella fisica, per intraprendere un trail del genere. Serve la voglia di superare dislivello, macinare chilometri, resistere senza pensare a nulla che non sia l’immersione nella natura. Sintetizzando, si può dire che la gara podistica sia più adatta a chi si sente un tipo “competitivo”, mentre il trail è per chi si sente un amante della natura. Pensa che il regolamento delle gare di trail prevede che, se non si aiuta un avversario . anche se forse sarebbe più giusto chiamarlo “compagno di viaggio” – in difficoltà, si possa perfino essere squalificati.

Dove vi può incontrare, una persona che voglia avvicinarsi al trail e in generale alle vostre iniziative?

Noi ci troviamo praticamente ogni domenica mattina al Bar Arcobaleno in piazza a Pratovecchio, e da lì partiamo per una camminata che può essere più o meno lunga a seconda delle circostanze. Abbiamo la fortuna di avere intorno a noi un territorio meraviglioso, e una bella passeggiata, o magari una Trail run, è un modo per conoscerlo ancora meglio!

La storia dei Washington Generals

Quando ti viene chiesto di raccontare una bella storia, è sempre bello condividerla. Questa storia parla di basket, ma parla soprattutto di ognuno di noi, della nostra fallibilità e della necessità di continuare a provarci, sempre. L’ho raccontata per La Giornata Tipo, qui.

Underdog

Arrivi e partenze. Non è fatta così, la vita di tutti noi? Era il 30 ottobre del 2015, dopo un tot di anni di scrittura sportiva più o meno locale e più o meno autoprodotta. Mi sono proposto a Crampi Sportivi su suggerimento di una persona che conosceva me e conosceva loro. Ero nel bel mezzo di un momento personale piuttosto complicato, e vedere il mio pezzo andare online mi riempì di orgoglio e soddisfazione, per cui a questa persona ancora oggi sono grato. Da Crampi sono arrivate altre collaborazioni, più altisonanti ma per le quali non riesco ad utilizzare l’aggettivo “importanti”, anche se indubbiamente gli ho dedicato tempo, energie e ne ho avuto in cambio tante soddisfazioni. Non posso e non voglio dimenticarmi che tutto il mio percorso di scrittura sportiva di questi ultimi sei anni è partito da qui, da Crampi Sportivi, che è un po’ come me: ha avuto le sue vicissitudini, ma è sempre in piedi, ed è per questo che “Underdog”, di cui ho avuto l’onore di scrivere un capitolo, è in un certo senso un punto di arrivo. Ma qui mi vengono ancora una volta in soccorso i miei ascolti musicali: “ogni stop è solo un altro start, la vita non si ferma, the future”. Vedere questo libro (grazie, Battaglia Edizioni, dal vivo è magnifico!), toccarlo con mano, leggere il mio nome stampato lì sopra, insieme ai nomi di altre persone che mi onoro di poter chiamare amici e compagni di viaggio ancora prima che colleghi di scrittura, mi riconcilia, ancora una volta, con giorni complessi e intensi. La scrittura, come la lettura, a volte può perfino salvarti.
Lunga vita, Crampi. Io ci sarò, da domani ancora più di oggi. 

Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile.

Io vorrei che tutti leggessero “Non tutto il male” di Andrea Cassini, edito da Effequ, perché sento il bisogno di confrontarmi con altri su questo libro. Vorrei che lo leggessero tutti perché io un libro come questo mi sa che non l’ho mai letto, ma non so se sia il libro o se sono io, come lettore, ad avere orizzonti limitati. Vorrei che lo leggesse qualcuno che non conosce l’autore, che non ci ha mai parlato, che non ci ha mai avuto a che fare, che non ha mai letto nulla di suo (come avete fatto?). Vorrei che chi lo ha letto mi scrivesse e mi dicesse che ne pensa di Zero, del Cartografo, della ragazza in bianco e della ragazza in nero, se anche secondo lui i fantasmi sono simili agli stand di JoJo, se ha capito chi era il cantante che si esibisce nelle gallerie della metropolitana, se è riuscito a farsi un’idea di che fine farà la città costruita sull’albero. Vorrei che chi lo ha letto mi dicesse che sì, è vero quello che sto per dirvi, e cioè che è un libro che nel bene o nel male non lascia indifferenti, che scava dentro, che parla di un mondo fantastico eppure così simile al nostro presente da lasciarci così, a pensare se è così che sta andando, che andrà, se davvero non riusciremo ad evitare che

Sopra un enorme albero è edificata una città. Ora l’albero è malato, per guarirlo è stato dato alle fiamme dal governo, che alimenta superstizioni e incoraggia sacrifici umani. La città vive al centro di un perenne incendio, e per le strade sono comparsi dei fantasmi: ciascuno si lega a un essere umano, assumendo la forma dei suoi traumi e sentimenti repressi. Più l’albero brucia per guarire, più la disperazione si propaga in città. Solo Zero non ha un fantasma ad accompagnarlo. Lui, che gestisce un redditizio forum online per i sempre più numerosi aspiranti suicidi, attraverso il suo lavoro scoprirà qualcosa che lega i fantasmi alla città e alle fiamme, e ricostruendo gli enigmi che compaiono nei suoi sogni si andrà immergendo, per volontà o per forza, in una missione che cela il significato di tutta la propria esistenza.
In una straordinaria metafora del rapporto malato tra uomo e natura, 
Non tutto il male ondeggia tra incubo e sogno, realtà e menzogna, per condurci al centro dell’epoca che stiamo attraverso una storia fantastica.

LO STRANIERO, ascoltare hip hop in italiano negli anni novanta.

“Io sono il numero zero, facce diffidenti quando passa lo straniero”

Sono a Roma con amici, è un tiepido giorno di primavera del 1996. le scuole stanno per finire e io sono appena uscito da Messaggerie Musicali con in mano la cassetta di “Neffa e i Messaggeri della Dopa”. Non ho mai avuto un amore così folgorante come quello che ho avuto per l’hip-hop. Non sono mai stato respinto in modo così brutale come lo sono stato dall’hip-hop. Vedi te com’è strana, a volte, la vita.

Il mio primo contatto con il mondo del rap, e successivamente dell’hip-hop, avviene intorno alla fine del 1993 quando nei palinsesti delle radio c.d. generaliste cominciano ad apparire trasmissioni con nomi altisonanti tipo Venerdì Rappa o Codice Rap. C’era stato Jovanotti qualche anno prima, ma non vale, a meno di non voler considerare “io sono Jovanotti il capo della banda se vuoi essere dei nostri devi fare domanda” una roba talmente trash da diventare valida per il solo fatto che ti entra in testa al primo ascolto, tanto è trash. A dire il vero Jovanotti ci aveva anche riprovato, nel 1992, ed era andata un po’ meglio, quando aveva aperto il quinto disco con un pezzo che si chiamava “il rap”, che pur essendo credibile quanto lo sarei io se mi presentassi a un provino per giocare trequartista per la Juventus, se non altro aveva il merito di incuriosire un giovane tredicenne com’ero io all’epoca verso un genere musicale di cui non esistevano parametri di riferimento, e se abitavi in provincia di Arezzo non c’era praticamente modo di avere un genitore tanto illuminato da fartene venire a conoscenza, magari passandoti i vinili di Grandmaster Flash o di Afrika Bambaataa.

“Rob, te sei stato la prima persona che conosco ad ascoltare i Public Enemy, ti sembra poco?”

(Il mio amico Marco, sulla strada verso un concerto dei Massive Attack non esattamente memorabile)

Non ci sarà mai un genere musicale che mi abbia attirato e poi respinto con la stessa potenza con cui ha saputo farlo il rap, dicevamo. Il rap mi fa incazzare come una bestia, diciamocelo senza tanti giri di parole – anzi, circoscriviamo il campo: il rap italiano mi fa questo effetto. Forse per questo oggi che ho un po’ più di quarant’anni riesco ad ascoltare con testa sgombra e animo sereno i pezzi di quei musicisti che si sono prefissati l’obiettivo di seppellire i loro illustri predecessori aggiungendo una T all’inizio del genere musicale. Vabbè. Storia lunga, ma se siete arrivati a questo punto della lettura significa che ve lo potevate immaginare. Comunque. Le osservazioni sono di due ordini di genere. La prima: il rap italiano mi fa incazzare, come del resto buona parte della “scena” della seconda metà degli anni novanta in provincia, perché è avvitato in una spirale di contraddizioni che mi fa l’effetto di quando un gorgo ti attira, ti attira, ti attira verso il centro e poi ti risputa fuori. La seconda: il rap italiano manca spesso di flow, o nella migliore delle ipotesi ha il flow ma parla del nulla o quasi, con l’effetto forse perfino fastidioso di scimmiottare i padri nobili degli States.

Voglio spiegare meglio questa cosa del rap che ti risputa fuori. Il punto è molto semplice: negli anni novanta, quando il rap e l’hip-hop facevano capolino nei paraggi delle nostre città, ovviamente erano uno dei life model più fighi ma al tempo stesso più impegnativi per un adolescente. Era tutto problematico: vestire oversize, vestire con le canotte delle squadre NBA, stare al passo con le uscite musicali, anche avere un approccio high alla vita. Servivano soldi in tasca, per le canotte, per i jeans oversize, per le scarpe da basket, per i CD originali, per l’approccio high e per tacer del resto. Da street culture, insomma, l’approccio integralista alla faccenda era una roba quasi esclusivamente riservata a figli di papà desiderosi di fare gli alternativi, almeno dalle mie parti. E allora io non ho potuto che tenermene fuori, ecco. Le sneakers della Fila perché effettivamente erano comode per giocare a basket ma si potevano indossare anche coi blue jeans, non oversize. La felpa con la cerniera e il cappuccio, e la voglia di rappresentare sé stessi attraverso il basket, per carenza di conoscenze musicali, capacità di acquistare dischi, inserirsi nei giri giusti. Prendevo tutti questi fighetti fintoalternativi che vestivano oversize, che in un certo senso erano la versione speculare dei fighetti delle polo Ralph Lauren col colletto alzato, e gli facevo il culo nel campo da basket, pur non essendo io Allen Iverson, tutt’altro. Mi ricordo una volta in particolare, c’era questo tizio che aveva la canotta celeste degli Charlotte Hornets di Larry Johnson, che all’epoca in cui si svolgevano i fatti era la cosa più figa del mondo con notevole distacco sulla seconda, e insomma una volta siamo capitati nello stesso campetto di basket, forse era l’ora di educazione fisica al liceo, e abbiamo giocato 3 contro 3. Io in difesa ero abbinato a lui, che più o meno era alto come me. Prima azione sua, lo stoppo mentre cerca di andare in appoggio. Palla mia, cerco di incrociare il palleggio senza neanche forzare troppo, lo lascio sul posto, appoggio due punti al tabellone. Terzo possesso, prova un tiro, vedo che la meccanica è tremenda, una roba tipo Shawn Marion per capirci

che si schianta sulla tabella senza nemmeno sfiorare il canestro.

E allora capisco che sono tutte fesserie, quelle dell’hip-hop in Italia, o meglio, nella provincia italiana, che è un trend di riflesso, che avrebbe potuto benissimo essere tutta un’altra cosa, se negli USA fosse andato di moda qualcos’altro. Pezzi su pezzi su pezzi in cui il rapper di turno elencava una serie di motivi per cui lui poteva e tu no, una roba che avresti voluto ingaggiare una rissa anche solo per principio, che va bene che ci sono stati Jovanotti e DJ Flash, ma insomma, potrei fare i nomi di almeno quattro artisti e/o gruppi che erano partiti per essere i più veri, duri e puri del mondo, ma quando hanno visto il colore dei quattrini – all’epoca ancora si parlava di lire, per contestualizzare un attimo – hanno deciso che loro avevano rappresentato a sufficienza, ecco, insomma, sapete com’è, tengo famiglia, tutti teniamo famiglia. 

Certo, c’erano delle eccezioni, in alcuni casi anche delle ragguardevoli eccezioni, e non è un caso se probabilmente il secondo disco italiano più bello tra quelli usciti negli anni 90 è il secondo di Frankie Hi-NRG MC, che peraltro è forse l’unico ad essere arrivato in cima alle hit parade con quella canzone di cui tutti ricordate il testo, col ritornello cantato da Riccardo Sinigallia e il videoclip nel taxi di notte a Roma, ecco, sì, proprio quella lì. Ma a parte queste eccezioni, i cedimenti strutturali erano di gran lunga numericamente superiori agli edifici che restavano in piedi, segno che era proprio sbagliato il progetto, erano sbagliati i materiali, era la costruzione nell’insieme a non funzionare. E allora ho virato altrove, come spesso accade in quella fascia d’età in cui la vita è davvero un insieme di possibilità e non un sentiero stretto, e mi rendo conto che di sicuro mi son perso qualcosa, a volte mi chiedo persino come sarebbe stata la mia vita se non avessi sostanzialmente abbandonato l’ascolto della musica rap e hip-hop se non per sporadiche e abbastanza casuali rentrée, e senza stare a dire “meglio” o “peggio”, sono ragionevolmente certo che sarebbe stata assai “diversa”, perché avrei dovuto trovare una strada mia per gestire la questione dell’approccio integralista alla faccenda, ma magari sarebbe bastato tenere duro qualche altro anno, aspettare quel tanto che bastava per far sì che arrivassero i masterizzatori, i CD-R e i CD-RW,  l’ADSL a casa eccetera eccetera, e invece quando quel momento storico è arrivato io ero già da un’altra parte, avevo altri riferimenti musicali, altri giri, giocavo ancora a basket ma per me l’epopea del rap made in Italy inizia con Verba Manent e finisce con 107 Elementi, con tutte le cose ragguardevoli che ci sono state in mezzo, da SxM in poi.

SxM merita un discorso a parte, perché sfugge a tutte le logiche di cui sopra. È un disco che non fa sconti, soprattutto non ne fa a sé stesso e ai suoi autori, come forse solo A volte ritorno di Lou X, disco in cui però mi sono imbattuto quando ero già fuori dalla fase hip hop, quindi che ho ascoltato con testa, cuore e orecchie diverse. Ma l’album dei Sanguemisto, invece, ecco io ero lì mentre succedeva, mentre il nome cominciava a girare e un certo numero di persone conosceva a memoria la rima la mia posizione / è di straniero nella mia nazione. Era un disco che scavava un solco profondo, e comunque più sensato, tra chi non lo conosceva e chi lo conosceva. Nel primo caso eri un ascoltatore superficiale, dilettante o distratto. Nel secondo, davi prova di aver approfondito l’argomento, di volerti davvero interessare a quella faccenda in espansione che era l’hip hop in italiano, e conoscerlo nel suo lato più conscious, e proprio per questo più autentico o quanto meno più prossimo all’originale. Forse per questo non ho mai provato fastidio nell’ascolto, né durante né dopo quella fase. 

Certo, c’è stata una coda, perché come tutti i grandi amori non corrisposti lascia una scia che somiglia un po’ a quella di una cometa: splende ben visibile, poi pian piano si affievolisce, e il ricordo della scia porta sempre nostalgia. Ho fatto una rima, per l’appunto – certi amori non finiscono mai del tutto. C’è ancora una cosa che ci tengo a dire: io lo so, davvero, che c’è gente che è riuscita a starci dentro fino in fondo, a questa storia, che l’ha vissuta in modo pieno, vero e con amore profondo. Vi rispetto tanto, tutti – e sono assolutamente privo di ironia quando dico questa cosa. Uno dei miei sogni nel cassetto era quello di registrare un EP di musica hip hop in italiano. Per ora è rimasto lì, ma che ne sai.

Sono passati poco più di 25 anni da quel giorno in cui me ne uscivo da Messaggerie Musicali a Roma con in mano la cassetta ancora incellofanata di “Neffa e i Messaggeri della Dopa”. Qualche mese fa ho visto Neffa di sfuggita a Sanremo duettare con una tizia, lui era stonato e lei no, ma soprattutto erano entrambi fuori tempo in un modo così grave che mi sentivo in imbarazzo per loro, per me, per il flow.  

Il numero 100

Arrivare a cento numeri è un traguardo importante che va celebrato a dovere. Sono a bordo di Casentino Più sin dai primissimi numeri, e insieme abbiamo fatto un bel pezzetto di strada. Esce oggi il numero 100, ci sarà un mio racconto inedito, intitolato “quattro schiacciate camaldolesi”. Prendetelo, leggetelo (leggetevi anche il resto, eh!) e fatemi sapere.