addio Chicco Luzzi

                  (foto: www.federicoluzzi.com)

Ieri pomeriggio la città di Arezzo ha salutato per l’ultima volta Federico Luzzi. Un campione di quelli veri, uno partito da qui a 13 anni e che poi non si è fermato più. Uno di quelli talmente legati al territorio che quando si parlava di lui si diceva “il Luzzi”, come si dice di un amico, come si dice “il Bracciali”, “il Bennati” o “il Barbagli”, per i ragazzi più o meno miei e suoi coetanei che si sono fatti strada nello sport.
Io non lo conoscevo bene, Federico. Almeno, non personalmente. Ma da buon aretino ho sempre seguito le sue gesta sportive. A cominciare da quando, a 14 anni, diventò campione mondiale under 14 di tennis. Era il 1994, ad Arezzo il calcio era appena ripartito in modo balbettante dal CND, altri sport di alto livello non ce n’erano e lui era l’uomo di punta della rinascita sportiva della città. Il fatto che un mio concittadino si stesse affermando in modo tanto importante in questo sport mi riempiva di orgoglio.
Aveva un gioco fatto di tocchi di classe, Federico. Purtroppo per lui, il tennis odierno è più una questione di potenza, corsa e poco altro. Sarà anche per merito suo se a me i terraioli che sparano solo fucilate da fondo campo non sono mai piaciuti.
Di lui i ricordi che ho sono tutti sportivi, praticamente, a parte averlo visto ogni tanto “al giro per Arezzo”, e una volta che si allenava con Daniele Bracciali, l’altro aretino tennista che non riesco neanche a immaginare come possa sentirsi ora. La famosa vittoria 14-12 al quinto set in Coppa Davis, dove venne convocato perché “i grandi” scioperavano. Gli ottavi di finale a Roma, nel 2001. L’ingresso meritato nei primi 100 del mondo, a cavallo tra il 2001 e il 2002, quando raggiunse il numero 92 nella classifica ATP, sua miglior posizione di sempre. E anche i cazzotti a Koellerer, ché tanto aveva ragione Federico.
Marta l’ha conosciuto, il Luzzi. Ci ha giocato insieme ai corsi di tennis del maestro Carlo Pini. “Tra me e lui c’erano cinque giorni di differenza. Da qualche parte dovrei avere una foto della scuola, qualche ritaglio di giornale. Era bassino, allora, poi crescendo è diventato uno stangone. Ma era bello già allora, s’era tutte innamorate di lui.” Oltre, ovviamente, a giocare del gran tennis.
Dalle nostre parti, le mie e quelle del Luzzi, si dice che non c’è peggio. Non c’è peggio che sapere che una forma rara, anzi rarissima di leucemia fulminante se l’è portato via in tre giorni. Non c’è peggio, per uno che di professione era uno sportivo, e che per beffa ulteriore del Destino aveva anche il babbo medico.
Queste non sono le righe di Ubaldo Scanagatta, che tutti gli appassionati di tennis d’Italia leggono, quando ricordano Federico Luzzi. Non sono le pagine della Gazzetta, e non sono neanche state lette ieri, durante l’ultimo saluto, al quale, per motivi di lavoro, non ho potuto essere presente. Sono riflessioni personali che condividerò con chi mi legge di solito e con qualcuno che, magari, cercando su internet, si imbattesse in questo mio scritto, fatto di appunti sui miei fidi taccuini Moleskine, sbirciate su giornali e siti internet, e tanti pensieri alla rinfusa. Soprattutto quelli.
E nei pensieri alla rinfusa il primo è per la famiglia Luzzi, a cui viene a mancare una persona cara e non solo un campione, perdita tragica come lo è sempre quella di un familiare nel fiore degli anni. Sono vicino a loro spiritualmente, per quanto possibile.
Mi torna in mente anche Paolo Moretti, che qualche tempo fa mi concesse questa bella intervista, anche lui aretino, anche lui colpito dalla leucemia, e penso che a volte il destino è proprio un gran bastardo, quando ci si mette.
Mi viene in mente Daniele Bracciali, “il Bracciali” quando ne parlavo coi miei compagni di scuola, un anno più grande di me, due più del nostro concittadino Luzzi che non c’è più, tennista come Federico, arrivato al numero 49 dell’ATP un paio di anni fa, e penso che mi piacerebbe che almeno lui leggesse queste righe, per dirgli “Forza Daniele, gioca e vinci anche per Federico”.
Verrò a salutarti anche qui, Federico. E un giorno, magari quando non c’è nessuno, porterò un fiore sulla tua muta, crudele lapide.
Qualcuno, parlando di te, ha scritto giustamente che “chi muore giovane è caro agli dèi”. Sarà per questo che ad Arezzo piove da due giorni.